Mia madre mi chiamò e mi disse: “Siediti, che devo dirti una cosa, ma non ti spaventare”. Avevo dieci anni. Sedetti, con le gambe che mi tremavano. Anche mia madre sedette e cominciò a intrecciarsi le dita delle mani come non sapendo da dove cominciare. E cominciò così: “Le femminucce quanto diventano grandi una mattina si svegliano e si sentono bagnate sotto….” e lì mia madre si interruppe e smise di intrecciarsi le dita. E io buona e zitta seduta di fronte a lei aspettando il seguito, battendo i denti per la paura. “Quando le femminucce si bagnano di sotto si dice che sono cadute dalle scale…” e quando uno cade dalle scale – pensavo io – si può anche rompere la testa. “E cadendo dalle scale si possono fare un pochino male, ma niente di grave”. Menomale che non si muore – pensavo io –, ma quanto male si fanno le femminucce che cadono dalle scale? Poi improvvisamente mi ricordai di quello che mi aveva detto una volta Anna, una compagnuccia un pochino più grande di me. Anna mi aveva detto: “Quando io sono caduta dalle scale e perdevo tanto sangue sono corsa da mamma, e mamma mi ha insegnato a fasciarmi la ferita”. “Che ferita?” avevo chiesto ad Anna. “Una ferita piccola piccola che noi femminucce portiamo dalla nascita e quanto diventiamo grandi si riapre una volta al mese e sanguina per tre giorni, poi si richiude”. Oddiomio, che cosa mi deve mai capitare? Forse impallidii, perché mamma mi prese un bicchiere d’acqua e me lo fece scolare tutto, e poi lei si attaccò direttamente al rubinetto della cucina.
“Insomma, cadendo dalle scale le femminucce si possono fare un pochino male, ma come ti dicevo niente di grave”, riprese a dire mia madre con la lingua impastata nonostante avesse appena bevuto. “Poi, quando ti succede a te tu vieni da mamma, e mamma t’insegna…” “…a fasciarmi la ferita” dissi io, e non l’avessi mai detto. Mamma si fece rossa come un peperoncino, poi bianca come la cera, poi prese respiro e disse: “E tu queste cose come le sai?” Non potevo mettere in mezzo la mia compagnuccia, sennò chissà cosa poteva capitarle per aver fatto la spia su una cosa così segreta, e perciò m’inventai lì per lì: “Beh, se si cade dalle scale una ferita mica è una cosa tanto grave, l’importante è non battere la testa…”.
Mamma si era quasi sfilate tutte le dita delle mani a furia di intrecciare e strecciare, e io tremavo ormai come un foglia al vento. Fuori si stava facendo notte, fra poco sarebbe tornato mio padre dal lavoro e sarebbero rientrati anche i miei fratelli, molto più grandi di me. “Mamma, apparecchio?” dissi facendo il tentativo di alzarmi. “Seduta”, ordinò mamma. “Allora. Quando tu una mattina ti svegli e ti senti bagnata sotto…” “Ma perché le femminucce cadono dalle scale proprio di notte?” non potei fare a meno di chiedere, e mal me ne incolse. “Non m’interrompere e ascolta”, disse perentoria mia madre riacquistando tutta la sua autorità, moltiplicata per tre. “Insomma, quando ti succederà di sentirti bagnata sotto, vieni da me che s’accomoda tutto”. “Ma io non mi faccio più la pipì sotto da quand’ero piccola, perché adesso mi dovrei bagnare di sotto?”.
Povera mamma. “Basta”, disse. “Ne parliamo un’altra volta”.
Da quel momento aspettai con ansia dolorosa di sentirmi bagnata sotto. Dopo alcuni mesi ebbi il primo mestruo e non fu di notte. Mi successe a scuola e corsi al bagno e non volevo più uscirne. Poi mi feci coraggio, appallottolai un po’ di carta e tamponai la mia piccola ferita.
Quando tornai a casa dissi a mamma che ero caduta dalle scale e mamma si mise a piangere. Poi mi prese per mano e mi portò nella sua camera da letto. Tirò fuori dalla cassa della biancheria una pila di pannolini bianchi con le frange e con le mie iniziali ricamate in rosso, un laccio bianco e due spille da balia, e m’istruì sull’uso, dandomi pratica dimostrazione.
Poi passammo ai fatti. Sempre tenendomi per mano mamma mi portò nel bagno, tirò fuori una bacinella di smalto nuova di zecca, la riempì a metà di acqua tiepida e la poggiò in terra, e il restò si compì come un rito fra il sacro e il profano, in un silenzio mistico.
Raccontata così pare semplice, e invece fu molto complicato cercare di capire cosa accadeva al mio corpo ora che ero caduta dalle scale. Non se ne poteva assolutamente parlare, di quel fatto di sangue. Mai avevo visto nulla di sospetto girare per casa, quando a mia madre ogni mese si riapriva la ferita. Avevo visto però sempre quei pannetti di un bianco splendente appesi uno in fila all’altro e avevo creduto che fossero canovacci da cucina o pezze da spolvero.
Mia madre m’insegnò fin da quella prima volta a tenere nascosto tutto l’occorrente, e soprattutto dopo averlo utilizzato, in modo che gli uomini di casa nulla sapessero di quanto accadeva. M’insegnò anche a lavare i pannetti nel modo giusto, con acqua fredda soda e varechina, e a stenderli in mezzo agli altri panni, mai da soli.
Mi sembrava che fosse colpa mia, se ogni mese sanguinavo col rischio di lasciare in giro tracce vergognose di femminuccia, e quando soffrivo di dolori mestruali serravo la bocca e sopportavo in silenzio, perché questo mi era stato insegnato.
Nessun uomo ha saputo mai, prima che la donna prendesse coscienza di sé e delle funzioni del suo corpo, e si liberasse almeno in parte dalla condizione di colpa che le è stata affibbiata fin dal principio del tempo, i dolorosi sconvolgimenti dell’animo femminile, le lacerazioni fra natura e cultura che non sanguinavano, ma facevano un male da cani e non si poteva nemmeno guaire sottovoce, per non turbare la regola del “soffri e taci” creata apposta per la dolce figlia di Eva.
Maria Lanciotti
(A margine dell’articolo multimediale di Doriana Goracci: “Panegirico sugli assorbenti e altre liquide presenze”)