Paolo Crepet, Giancarlo De Cataldo
I giorni dell’ira
Storie di matricidi
Feltrinelli 2002, pagg. 141, € 6,50
Paolo Crepet
Le dimensioni del vuoto
I giovani e il suicidio
Feltrinelli 2002, pagg. 168, € 7,00
«Andai nei boschi perché volevo vivere
con saggezza e profondità e succhiare
tutto il midollo della vita, sbaragliare
tutto ciò che non era vita!
E non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto!»
(da l’attimo fuggente, citato ne Le dimensioni del vuoto, pag. 54)
Ancora due importanti passi vorrei citare...
«Se questo libro potesse finire nella borsa di una mamma che non sospetta ancora nulla, nella tasca di un papà distratto… e se fosse l’occasione per loro di guardarsi negli occhi e chiedersi “va davvero tutto bene?”… allora questo libro piccino avrebbe eseguito il suo compito…»
«Scrivere un saggio è, a volte, una scelta ansiolitica per chi la compie… abbiamo quindi scelto deliberatamente di narrare, non di scrivere un saggio… a quella gente spaventata che legge le cronache percependo qualcosa di insondabile e di inquietante. Questo è l’unico senso che ha per noi, il parlare del male».
Quando acquistai i due saggi era il 2002, in edizione economica, dopo tante ristampe ed immagino quindi, tanti lettori, li ho letti, riletti, ne ho parlato, ho cercato con empatia di accoglierli nell’anima mia di madre ed insegnante e lì devono essere rimasti se la settimana scorsa li ho trovati in un attimo, nonostante il disordine dei miei libri e ho “tradotto” alle parole dell’autore lo smarrimento che questi ultimi tempi mi assale spesso anche ora che sono madre di due figli grandi e che da un anno sono in pensione dalla scuola. Non ho mai smesso di sentire e di voler comprendere la fatica del crescere, lo smarrimento e il disagio giovanile e la dimensione del vuoto che mangia l’anima in un silenzio assordante.
«La pubblicazione de Le dimensioni del vuoto in edizione economica ha per me il sapore contraddittorio di una soddisfazione confusa ad un'amarezza». Così scrive Crepet al ripetersi di fatti uguali, identici, feroci che scardinano l’adolescenza da quel processo evolutivo sano che dovrebbe condurre alla formazione della persona come entità a se stante.
Il linguaggio è chiaro, sensibile, esplicito nell’affermare il dubbio come ipotesi di ricerca e non sempre di soluzione. Ed è proprio con questa onestà intellettuale che Paolo Crepet scende tra la gente, parla, racconta, provoca riflessioni e pensieri che dovrebbero per analogia ricondurci al nostro agito e spingerci almeno a tentare qualcosa contro la deriva dei nostri ragazzi senza la supponenza di riuscirci, consapevoli invece dei tanti errori commessi nel difficile ruolo di genitori ed insegnanti. La continua proposizione di dettagli di violenza ha da molto anestetizzato il sentimento e la cognizione del dolore che viene fruita come esigenza a leggere il male altrui per sedare il nostro o in un immaginario voyeuristico che ci vede estranei soprattutto a noi stessi. Facilmente riconduciamo la linea di un possibile approccio di lettura entro canoni prefissati che altro non rappresentano se non i veri luoghi di disagio, di dolore e di carcerazione dell’anima. Per questo mi permetto di leggere e parlare di “una” dimensione del vuoto consumata con varie modalità, tante, ma poco frequentemente parlata e dialogata. Non insegnando la vita perché mai i nostri ragazzi dovrebbero amarla e darle un senso? Infatti troppo spesso si “ridefiniscono nella morte e nella violenza” come unici passaporti alla liberazione del dolore.
Ricordo ancora un incontro con un grande prete di Ferrara, Don Franco Patruno, pittore, poeta, giornalista e scrittore vicino ai giovani che disse: «Fino a quando i giovani non avranno il senso della vita sarà assolutamente inutile lottare contro la droga, la violenza, la sopraffazione, potremmo anche togliere fino all’ultima foglia di cocaina, prevarrà comunque la cultura della morte».
«Scrivere questo libro è servito a me, mi ha permesso di trasferire la mia inquietitudine e la mia insoddisfazione su queste pagine nella speranza di impollinare qualche adulto con i miei dubbi».
Mentre scrivo avverto di come l’autore sia riuscito nel suo obiettivo più di quanto pensassi e di quanto le sue parole mi abbiamo aperto ad una relazione consapevole con me e con gli altri anche se sofferta, che ogni volta si riscrive, si cancella e si rilancia nella mutevolezza dei tempi, nelle loro contraddizioni che mi angosciano d’improvviso come se sempre dovessi cominciare un attraversamento nuovo verso la conoscenza.
Di questo non sarò mai grata a sufficienza.
Scorrono nei dettagli del loro angoscioso percorso le vicende di Teresa e Luca per cercare attraverso il loro vivere, punti di discussione allargata ad altri per cercare di scavare dentro «il presagio dell’assurdo» che condurrà questi giovani al suicidio o come ne I giorni dell’ira al matricidio, entrambi obiettivi-desiderio di totale annullamento di sé. Una società strutturata, così almeno dovrebbe essere, su due perni, famiglia e scuola, è ancora oggi ancorata a pregiudizi e luoghi comuni ma soprattutto sembra sopravvivere per “semplificazioni”: «“studente si toglie la vita dopo la bocciatura a scuola” si sottolinea l’aspetto impulsivo sottovalutandone la correlazione con gli aspetti cognitivi… esso nasconde invece sempre un disagio antico» (La dimensione del vuoto, pag. 103).
Ho da tempo chiaro che “la semplificazione” degli atti adolescenziali di disagio sono spesso camuffati e distratti da codificazioni inaccettabili e omologate entro una categoria prefissata come solo modo per allontanarli da se stessi e relegarli a poca riflessione, comprensione e ascolto. Di questo sono dolorosamente certa altrimenti oggi episodi di tal genere non si sarebbero moltiplicati e tanto meno noi avremmo accettato la punizione come atto risolutorio.
Essa invece sembra abbia dato sollievo invece di essere considerata come fallimento della reciprocità di raffronto con i ragazzi, così il bullismo che, esploso molto prima di riempire oggi le nostre cronache, categorizza ma non offre spazio all’individuo come singola persona, sempre originale rispetto al fenomeno e divide i gruppi di bulli da quello dei fragili, codificando una serie di comportamenti di appartenenza all’uno e all’altro; ma la dimensione del vuoto non è forse di entrambe le parti? ed ognuno non è forse il risultato di motivazioni personali risalenti al proprio agito?
I saggi che ho sentito di riproporre, anche senza competenze specifiche nel campo, descrivono e non giudicano, partecipano e suggeriscono senza il trionfalismo di chi ha la verità sempre in tasca, propongono un dialogo, insistono “gentilmente”, nell’accezione primaria del termine, per far comprendere che se non avremmo tentato qualcosa e ascoltato i giovani, le loro famiglie, i nostri figli, se ci vergogneremo di dire, se non collaboreremo, il suicidio, il matricidio, i gesti efferati delle ultime cronache, la noia dei sassi dal cavalcavia e l’impellenza dello sballo per vivere, sarà l’eredità che lasceremo ai giovani e a tutti quelli che sempre più ci stanno cercando e, anche nel modo peggiore, ci stanno chiedendo di esserci senza indifferenza.
Patrizia Garofalo