Caro Claudio, ho letto “La panchina” di Thomas Hardy. Càpita a puntino. Ero qui infatti per proporti una mia serie a puntate, dedicata alla traduzione di poesie in forma chiusa, che è fuori moda. La prima puntata contiene qualche appunto teorico e la traduzione, con testo originale, di The Tiger. Le altre a seguire, con uno o due testi per volta (con originale), dall'inglese (anche Thomas Hardy, reso male da Montale), dal francese, dal latino, e forse qualcosa dal greco. Se c'è spazio in TF per questa operazione ecco il primo testo della serie, con gli appunti teorici generali; gli altri testi ne avranno, casomai, pochissimi e solo di carattere particolare.
Marco C.
L’ARTE DELL’IMITAZIONE. THE TIGER DI WILLIAM BLAKE
Questa serie di scritture si occuperà di imitazioni, ovvero traduzioni poetiche in forma chiusa, assai decadute nelle ultime generazioni, parallelamente alla stessa forma chiusa della poesia in prima istanza. Pochi appunti preliminari (il fare dimostrerà più del dire).
1) Pound: «La miglior traduzione è nel linguaggio che l’autore avrebbe usato se avesse scritto nella lingua del traduttore». Pertanto (del medesimo): «La cosa di PRIMA importanza in una traduzione è che il traduttore capisca la PROPRIA lingua, quella originale conta meno». Detto più liscio dal vecchio Monti: «Quando si traduce, non è più la lingua del tradotto a cui si debbano i primi riguardi, ma quella del traduttore».
2) Il Foscolo nelle considerazioni Su la traduzione del cenno di Giove, conclude a contraggenio: «Rispetto alla mia traduzione di questi tre versi, e di moltissimi altri, m’accorgo che si può etimologizzare, sillogizzare, fantasticare sopra i grandi originali, ritrarli al vivo non mai; e che le mie teorie condannano i miei esempi: però è più arrogante chi parla che chi fa». Eccellenti le due considerazioni finali.
3) Mai dimenticare T.S. Eliot: «Non so che razza di verso possa essere quello che non si può misurare». Una glossa un po’ spiccia: la prosa è prosa, e il verso non è prosa. Pertanto i versi veri siano tradotti in versi veri. Su cosa sia un verso vero ho già scritto nel Decalogo di poesia (vedi in Tellusfolio). In quanto alle possibilità ritmiche, nessuna lingua è più ricca dell’italiano; qualche ostacolo insorge riguardo il metro: per es., con lingue monosillabiche come l’inglese.
4) Le forme chiuse esigono forme chiuse, ottimo se corrispondenti (sonetto con sonetto). Qualora tradizioni e strutture linguistiche troppo diverse non lo consentano, pena il cadere in un calco tristo e cocciuto, si tenti di perequare in una forma equipollente, dato che ciascuna lingua ha le sue catene e i suoi tesori. Il traduttore deve vincere lo spessore della propria forma chiusa così come la sua vinse l’autore primo: disciplina etica, prima ancora che estetica.
5) Non si traduca puntando a una resa perfidiosa della parola intesa come nudo e crudo concetto, ma si guardi anche al suo ritmo sonoro, e quindi all’intera armonizzazione del discorso. Pertanto, anche se nessuna tessera del mosaico riprodotto corrisponderà alla corrispettiva originale, poco importa; ma ecco che basta allontanarsi di qualche passo e il concerto cromatico è il medesimo. Se gli strumenti (letterari, linguistici) mutano, lo spartito (concettuale, formale) pure muti in considerazione di quelli, tale da renderci pur sempre quella musica. La poesia, e quindi la traduzione metrica, si valuta pienamente nella sua dizione.
6) Se la traduzione, nel suo sforzo di fedeltà, riesce ad arricchire espressivamente l’originale, tanto di guadagnato; ciò, se non altro, compenserà in parte altre perdite. Il traduttore imitatore è il secondo autore del testo originale, al contrario di chi opera una “traduzione di servizio” o in versi liberi.
7) Rapporto etico, al livello sublime, fra Traduttore, Autore e Lettori: «Colui che Lo tradiva aveva convenuto un segnale con Loro, dicendo: “Chi bacerò è Lui; prendetelo e portatelo via tenendolo ben forte”» (Marco, XIV-44). Valutare attentamente ogni parola.
Un esempio di imitazione. The Tiger di Blake vive soprattutto del ritmo martellante, ora trocaico ora giambico, esaltato dal verso breve, che velocizza l’esecuzione, e dalle rime. Castrata di questo apparato espressivo, la tigre si trasforma in un micione. Non c’è, ch’io sappia, una resa in italiano che ce lo restituisca a un livello accettabile (Ungaretti, Ceronetti…), ma posso sbagliarmi. Tutti temono di tradire (!) il significato letterale – ben misera fedeltà – e solo a quello puntano. Quanto propongo non è, e non potrà mai essere, una corresponsione perfetta; ma l’uso di decasillabi, ancorché non irreprensibili, e di rime, baciate o alterne (si fa quel che si può), mi pare che funzioni abbastanza. Certa approssimazione semantica, se non sintattica, è nell’originale. Si consiglia una dizione scolpita, in “staccato”.
Ti prego, William, perdonami.
WILLIAM BLAKE
(1757 – 1827)
THE TIGER
Tiger! Tiger! burning bright
In the forests of the night,
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?
In what distant deeps or skies
Burnt the fire of thine eyes?
On what wings dare he aspire?
What the hand dare seize the fire?
And what shoulder, and what art,
Could twist the sinews of thy heart?
And when thy heart began to beat,
What dread hand? and what dread feet?
What the hammer? what the chain?
In what furnace was thy brain?
What the anvil? what dread grasp
Dare its deadly terrors clasp?
When the stars threw down their spears,
And water’d heaven with their tears,
Did he smile his work to see?
Did he who made the Lamb make thee?
Tiger! Tiger! burning bright
In the forests of the night,
What immortal hand or eye
Dare frame thy fearful symmetry?
LA TIGRE
Tigre! Tigre! bagliore screziante
le foreste di tenebre, quale
mano seppe, quale occhio immortale
forgiar la tua simmetria agghiacciante?
In quali remoti cieli o abissi
arse il fuoco dei tuoi occhi fissi?
Chi e con che ali osa sfidare?
Quale mano il fuoco osa afferrare?
Quale spalla seppe e quale arte
torcere i tendini del tuo cuore?
E palpitò: Chi ci prese parte
con mani e piedi senza tremore?
Quale maglio usò? quale scalpello?
In quale forgia fu il tuo cervello?
Quale pugno su incudine osa
serrar l’atrocità luttuosa?
Quando gli astri giù luce scagliarono
e di lacrime il cielo lavarono,
sorrise a veder Lui il suo travaglio?
Sortì l’Agnello e te dal suo maglio?
Tigre! Tigre! bagliore screziante
le foreste di tenebre, quale
mano osa, quale occhio immortale
forgiar la tua simmetria agghiacciante?
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