Mi capita spesso di immaginare l'America come punto di convergenza di due linee che partendo una dall'Europa e l'altra dall'Africa sono andate a incontrarsi e a congiungersi nel continente scoperto da Colombo. Dall'Europa arrivarono in America mercanti e avventurieri, missionari e agricoltori, cercatori d'oro e mercenari, feroci conquistatori e poveri emigranti. Dall'Africa arrivarono in catene, a milioni, esseri umani ridotti in schiavitù. Selezionati come animali da allevamento, venduti e comprati sui mercati come le bestie nelle fiere di paese. È una storia, quella americana dal 1492 a oggi, che si scrive con la penna intinta nel sangue. Purtuttavia laggiù, oltre l'Atlantico, la storia ha subito un'accelerazione come non si era mai visto nel corso dei secoli e dei millenni. E gli Stati Uniti d'America, il paese in cui è nata la democrazia, ci rimandano oggi l'immagine di una terra dove tutto è eccessivo, nel bene e nel male, ma dove tutto è possibile, anche ciò che fino a pochi anni fa non si poteva neppure immaginare. L'elezione alla presidenza Usa di Barack Obama ha stupito il mondo. Il nuovo presidente non è un discendente degli antichi schiavi, ma rappresenta il simbolo dell'incontro fra etnie e culture di due grandi continenti e rispecchia con la sua storia personale e la sua immagine l'idea di un'America nuova, pronta a superare le sue tante contraddizioni.
Qualcuno ha detto che il presidente degli Stati Uniti d'America dovrebbe essere eletto dai cittadini del mondo tanta è l'importanza degli Usa nel nostro pianeta. È un paradosso che contiene una grande verità. Perché, che lo si voglia o no, sono gli Stati Uniti che guidano il mondo. Sono loro che promuovono lo sviluppo economico o che trascinano tutti dietro una crisi come quella attuale, sono loro il punto di riferimento per la cultura e per l'arte, per le scienze e per le tecnologie, per il cinema e per la musica, per la libertà e per i diritti civili. È l'America che riassume in sé le contraddizioni del nostro tempo: la libertà e l'oppressione, la ricchezza e la povertà, l'integrazione e i ghetti, il puritanesimo e l'indecenza. Ora l'elezione di Obama alla presidenza degli Usa rappresenta quel faro di speranza di cui tutti abbiamo bisogno. C'è chi dice: non illudiamoci, l'America sarà sempre l'America, con la sua politica del bastone e della carota. Carote per chi è ossequioso ai suoi voleri, ma bastone pronto a colpire chi si mette di traverso. Anche in questo c'è del vero. Gli States continueranno a essere gli States e Obama non farà miracoli. In molte parti del globo continuerà a risuonare la voce delle armi. La crisi economica non sarà superata dall'oggi al domani. Non tutti i cittadini americani potranno ancora accedere a quei servizi essenziali, di assistenza sanitaria e sociale, ai quali gli uomini hanno sacrosanto diritto.
Ma io sono convinto che il significato simbolico dell'elezione di un uomo come Barack Obama, al di là e ancor prima delle sue iniziative e dei suoi atti di governo, sia di per sé un reale motivo di speranza per gli uomini di buona volontà. Certo, Obama si troverà di fronte a problemi enormi. Non sarà facile venire a capo di una crisi economica tanto difficile e profonda. Non sarà facile stabilire un clima di piena fiducia con le altre grandi potenze del pianeta (Russia e Cina in primis). Quanto mai difficile sarà debellare un terrorismo che di anno in anno si dimostra sempre più incontrollabile e disumano, così come sarà difficile catturare il pazzo dalla lunga barba che si nasconde sui monti dell'Afghanistan.
Il nuovo presidente degli Stati Uniti è pienamente consapevole delle sue responsabilità e sa di avere su di sé gli occhi del mondo. Ma sa anche che la sua elezione ha segnato una svolta storica nel cammino degli uomini. È successo qualcosa di nuovo e di grande. L'umanità ha qualche motivo in più per confidare in un domani migliore.
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Dalle stelle (e strisce) alle stalle. Licio Gelli, fondatore della P2 ha dichiarato in una recente intervista (c'è ancora qualcuno che va a intervistarlo) che ai tempo del Fascismo c'era ordine, serenità, lavoro, ecc. Che durante il Ventennio la mafia era pressoché scomparsa, ecc. Sono discorsi che fanno sempre un certo effetto, come quegli involucri dorati e argentati che però nascondono al loro interno i più scadenti prodotti. Perché, tolto l'involucro fatto di banalità e di luoghi comuni, sappiamo bene cosa troviamo. Troviamo, tanto per non girare troppo intorno al discorso, un Giacomo Matteotti ucciso come un cane per aver denunciato in Parlamento le violenze, i soprusi e le illegalità del Fascismo ai suoi inizi, un Antonio Gramsci rinchiuso per ben dieci anni nelle galere fasciste (e morto in conseguenza di questo), intellettuali e uomini politici costretti all'esilio o messi in catene (come Sandro Pertini) per le loro idee, ecc. Ma quale serenità ci poteva essere se i giornali non allineati non potevano uscire e i mezzi di informazione erano sottoposti a una incessante operazione di censura? Quale serenità se i pubblici dipendenti erano costretti per lavorare a giurare fedeltà al Fascismo e al suo capo? Se il Parlamento era muto? Se i sindacati non fascisti vietati? L'arte, la letteratura, il cinema dovevano celebrare le “glorie” della dittatura e del suo capo. Oppure accontentarsi di temi di evasione che con la realtà italiana del tempo c'entravano veramente poco. È vero che c'era meno criminalità, ma è altrettanto vero che le proteste sociali venivano represse col bastone e con l'olio di ricino e, quando serviva, con le armi. Bisognava andar dietro ai sogni di gloria di un dittatore che aveva perso i contatti con la realtà. Un illuso che neppure suo genero Galeazzo Ciano, ministro degli esteri del tempo, riusciva a comprendere nella sua megalomania. Ciano, sia pure a sua volta colpevole sotto molti aspetti, si rendeva conto che Mussolini stava trascinando l'Italia alla catastrofe, così come se ne rendeva conto il popolo italiano.
La catastrofe arrivò, con milioni di morti, l'Italia messa a ferro e a fuoco, le città distrutte, l'economia azzerata, la povertà divenuta miseria, le vedove, gli orfani, gli odi della guerra civile. È questa la serenità della quale lei parla, signor Licio Gelli?
Gino Songini
(da 'l Gazetin, dicembre 2008)