In Italia la fama di Rainer Maria Rilke arrivò solo postuma. Il poeta era già morto da qualche anno quando il germanista Vincenzo Errante lo fece conoscere per la prima volta al pubblico italiano con una monografia e diverse traduzioni sia della sua opera in prosa sia dei suoi versi. Da allora Rilke fu molto amato nel nostro paese, anche se, già negli anni cinquanta, non mancarono voci fuori dal coro, come quella del demonico Giovanni Papini che, dalle colonne del Corriere della sera (25/07/1954), definì Rilke «insopportabile» dichiarando senza mezzi termini di trovare i suoi versi «estranei, ostici, incommestibili, […] trappolerie più pretenziose che preziose, […] esercizi di enigmistica da sanatorio», e di provare per lui un’invincibile «ripugnanza». Un giudizio analogo espresse anche il suo amico Benno Geiger, mercante d’arte, poeta e traduttore, che nelle sue Memorie di un Veneziano (Valecchi 1958) rinfacciò a Rilke di essere più che altro l’amante accorto di attempate ed abbienti signore, «ai torbidi e profumati cuscini delle quali» egli doveva gran parte della sua celebrità.
In genere però, Rilke (1875-1926) fu ed è un poeta molto apprezzato nel nostro paese, anche perché ormai è stata sfatata la “leggenda” che lo riduceva a malinconico seduttore, abile nel conquistare e nello sfruttare con i suoi occhi profondi e tristi i favori di tante dame della buona società. È tuttavia innegabile che l’incontro con alcune personalità femminili di spicco abbia promosso la maturazione di Rilke uomo e poeta.
Dopo l’infanzia nella nativa Praga, segnata da una madre opprimente e bigotta, fondamentale e liberatoria fu per Rilke l’opportunità di conoscere a Monaco nel 1897 Lou Andrea-Salomé, che diventò per lui, oltre che un amore, una vera maestra di vita. L’esperienza vissuta, dopo il viaggio in Russia con Lou, nella colonia di artisti di Worpswede presso Brema, fra i quali il poeta trovò anche la moglie, la scultrice Clara Westhoff, e gli anni parigini a fianco di Auguste Rodin furono altrettanto essenziali per la sua evoluzione artistica e la sua ricerca di un linguaggio poetico nuovo.
Fra le donne che accompagnarono e incoraggiarono Rilke un posto speciale spetta poi alla principessa Marie von Thurn und Taxis (di Torre e Tasso), che fra il 1907 e il 1912 gli diede spesso ospitalità nel suo castello di Duino presso Trieste, dove il poeta cominciò a scrivere uno dei suoi capolavori, Le elegie duinesi. Marie von Thurn und Taxis, che, nata a Venezia, possedeva un appartamento nel palazzo Valmarana, direttamente sul Canal Grande, mise tra l’altro a disposizione di Rilke questo suo alloggio nell’autunno del 1907, dando modo al poeta di conoscere una Venezia non travolta e sconvolta da fiumi di visitatori occasionali.
La città non era sconosciuta al poeta, che già nel 1897 vi aveva soggiornato per alcuni giorni. Rilke, allora, si era spinto a Venezia da Arco (dove sua madre stava facendo una cura termale), usando come guida Il viaggio in Italia di Goethe, che tuttavia ben presto gli era risultato troppo lucido e pragmatico, privo di “atmosfera”. Fin da allora – e anche dopo un secondo soggiorno veneziano nel 1903 – Rilke aveva dedicato versi e brani di prosa alla città lagunare, ma si era adeguato a quell’iconografia tradizionale, fatta di facciate di marmo dalle finestre noresche e gondolieri rumorosi, che della città evidenziava quel miscuglio di bellezza e putrescenza, estasi e malattia, sensualità e menzogna, verità e maschera, da sempre motivo di fascinazione per artisti di ogni provenienza.
Venezia, inizialmente, era apparsa a Rilke triste e sconsolata come una stanza non riscaldata, ma durante il soggiorno del 1907 la città pian piano lo conquistò e il poeta ne divenne un ammiratore incondizionato. In quel periodo Rilke frequentò archivi e biblioteche, salotti e pinacoteche, ebbe una tenera relazione con Mimì Romanelli e si godette i bagni al Lido, cercando sempre di tenersi lontano dai luoghi di culto dei turisti distratti, che invece lo irritavano profondamente.
Rilke fissò tra l’altro la nuova immagine che s’era fatto della città in un sonetto, scritto a Parigi e inserito nella seconda parte della raccolta Poesie nuove del 1908, dove è azzerata ogni banalità legata a cupole dorate, colombi e ventagli, che è insomma lontanissimo dai cliché più triti:
Tardo autunno a Venezia
Ora la città non ha più l’effetto di un’esca,
che tutti i giorni emersi pesca.
I vitrei palazzi tintinnano più rigidi
allo sguardo. E dai giardini fa pendere
l’estate un mucchio di marionette
a testa in giù, stanche, ammazzate.
Ma dal fondo, da vecchi scheletri di selva,
s’eleva una volontà: quasi che in una notte
il generale del mare le galere
nel vigile arsenale dovesse raddoppiare,
onde già l’aria mattutina incatramare
con una flotta, che a colpi di remi
rapida avanza e albeggiando con tutte le bandiere
il gran vento si procaccia, raggiante e fatale.
(trad. di G. R.)
La traduzione – sempre e solo un tentativo di avvicinamento – non riesce a rendere la musicalità dei versi originali a rima incrociata con esito alternante piano e tronco, ma prova a restituire la dialettica primigenia che, nella visione di Rilke, lega la città agli elementi dell’acqua e dell’aria.
Rilke si può anche non amare, ci sono alcuni aspetti della sua sfera privata e della sua opera che possono anche risultare sgradevoli, zuccherosi e in odore di falsità. Molte delle sue poesie, tuttavia, come questo sonetto appunto, non cessano di stupire per la spinta innovativa che le anima. Rilke dimostra qui come per lui la poesia sia una forma di resistenza allo Zeitgeist, allo spirito di un’epoca materialistica e smargiassa, profittatrice e trionfalistica, che non ha più occhi per quanto sta dietro l’apparenza delle cose. Coi suoi versi Rilke si oppone ad ogni appiattimento e adeguamento alle mode, conferendo al suo sguardo sulla realtà uno slancio verticale che la sottrae alla legge imperante della fruizione immediata ed effimera. Al profitto – inteso in senso lato – predicato dal suo tempo, la poesia di Rilke replica con il “controvalore” di versi dal tocco diafano che diventano mezzo di reinserimento nel mondo di quella ricchezza ideale che l’uomo moderno, nel suo affanno utilitaristico, ha cessato di perseguire.
Gabriella Rovagnati