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Andrea Maori. Da Capitini a Sharp: Noncollaborazione, liberalismo e democrazia
Gene Sharp
Gene Sharp 
05 Ottobre 2008
 

Come è noto Aldo Capitini è stato forse il primo divulgatore delle idee gandhiane in Italia. Vorrei prendere lo spunto da un suo libro che io ho trovato centrale e che costituisce la base di questa breve comunicazione. Si tratta delle Tecniche della nonviolenza uscito nel 1967, libro che in modo semplice ma profondo fornisce delle indicazioni molto chiare sull'uso politico della nonviolenza, in relazione anche alle lotte sociali degli anni '60.

Dopo il buon esito della marcia Perugia-Assisi, la vasta risonanza nel paese, le promesse suscitate, occorreva dare maggior continuità al lavoro per la pace e la nonviolenza. Capitini fonda allora il Movimento Nonviolento per la pace e, nell'aprile 1962, chiede a Pietro Pinna di raggiungerlo a Perugia per collaborare a questa impresa, che li accomunerà per il resto della vita.

Nel 1962 pubblica il libro La nonviolenza oggi. In maggio, a Firenze, aveva tenuto una relazione su “Disarmo e politica della nonviolenza” al convegno nazionale sui problemi del disarmo. L'anno successivo, a Perugia, organizza un seminario su “Le Tecniche della nonviolenza”, che darà poi il titolo al libro.

Questo libro è stato uno dei primi – a larga diffusione – di tutta una pubblicistica che si è diffusa in Occidente dagli anni '70 in poi. In Italia non bisogna dimenticare il ruolo importante della rivista Azione Nonviolenta fondata da Capitini nel 1964 dove per anni in modo instancabile si prosegue l'opera di diffusione e di informazione delle tecniche.

In particolare, vorrei soffermarmi su quanto Capitini scrive sulla noncollaborazione e sulla disobbedienza civile.

 

«La nonviolenza», dice Capitini «è la valorizzazione dell'individuo, nei due significati: per il rispetto e l'affetto all'esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni individuo; per il suscitamento delle energie profonde in ogni individuo, anche modesto, anche fisicamente insufficiente e socialmente insignificante, che, con il metodo nonviolento, può dare, invece, un contributo prezioso».

Già queste parole ci riportano al liberalismo e alla democrazia intesi come valorizzatori dei diritti individuali e della tutela dell'individuo rispetto ai soprusi dello stato o di qualsiasi altra istituzione.

«La noncollaborazione può infatti effettuarsi nei riguardi di altre persone o nei riguardi di un'autorità, di un'istituzione, di una legge, nel qual caso viene ad essere disobbedienza civile», scrive Capitini. L'uso delle tecniche di disobbedienza civile nella lotta politica vuol dire usare gli strumenti del dialogo con l'avversario, della persuasione e dell'informazione corretta: vale a dire la lotta politica nonviolenta diventa moltiplicatrice delle potenzialità dei principi liberali e democratici. Continua Capitini: «L'iniziativa di informare gli altri è anche un riconoscimento del valore che viene attribuito al diritto democratico della libertà di comunicazione, di informazione e di associazione».

La nonviolenza, le tecniche usate nella lotta politica nonviolenta, gli obiettivi dei movimenti nonviolenti sono quindi strettamente legati allo sviluppo democratico di una società. Prendiamo per esempio il caso dell'obiezione di coscienza, del suo riconoscimento culturale e legislativo che hanno visto in Capitini un instancabile promotore di iniziative.

Tralascio il discorso sulla differenza in senso stretto con la disobbedienza civile che ci porterebbe lontano, accenno soltanto al fatto che, a mio avviso, la tutela dell'obiezione di coscienza è una spia indicatrice del grado di democratizzazione di uno stato perché questa tutela diventa conseguenza del riconoscimento dei diritti fondamentali dell'individuo.

Nella tutela dell'obiezione di coscienza è sottolineata l'intima connessione esistente tra il diritto alla libertà religiosa, il diritto alla libertà di pensiero, quindi all'affermazione di un pieno diritto civile. Le lotte degli obiettori fino a tutti gli anni '70 si sono incentrate proprio sulla affermazione di questi principi.

In Europa il processo di riconoscimento non è stato, ovviamente, simile in tutti i paesi. In prima approssimazione, possiamo affermare che i paesi del nord e del centro Europa dove i riformatori cristiani (non tanto Lutero e Calvino, quanto i movimenti evangelici più radicali, come gli anabattisti, i quaccheri, i mennoniti, i testimoni di Geova) a partire dal XVI secolo svilupparono le attitudini nonviolente e affermarono di dichiarare l'obiezione di coscienza, sono stati i primi paesi ad emanare decreti di esenzione dal servizio militare per questi gruppi. Erano atti di tolleranza e non dei veri e propri riconoscimenti.

Il processo di secolarizzazione in ampi ambiti della società civile europea, a partire, soprattutto dal secolo XVIII, portò allo sviluppo di motivazioni non strettamente religiose, ma anche etiche, umanitarie e pacifiste. A cavallo tra il XIX e il XX secolo si ebbero, nelle giovani democrazie scandinave e in alcuni stati federali degli USA, i primi riconoscimenti dell'obiezione di coscienza.

Democrazia e diritto all'obiezione di coscienza incominciano a percorrere la strada insieme. Il durissimo trauma della 1ª guerra mondiale darà un impulso al riconoscimento dell'obiezione di coscienza specialmente nel Regno Unito – dove l'obiezione è riconosciuta durante la guerra – e nei Paesi Bassi. Nei paesi cattolici l'esenzione dal servizio militare ha riguardato – in quel periodo – i sacerdoti anche se la chiesa si è opposta per un lungo periodo ad una legalizzazione dell'obiezione di coscienza. Sarà con la catastrofe della 2ª guerra mondiale che la chiesa comincerà a lottare per la pace e la tutela degli obiettori.

Alla fine della guerra e la nascita delle moderne democrazie, l'obiezione di coscienza ha trovato un riconoscimento diffuso spesso condizionato dai movimenti sociali che lottano per ottenere maggiori diritti umani e che rappresentano una risposta alla crescente militarizzazione della società. Va anche detto però che spesso questi riconoscimenti non sono pieni ma mediati da "filtri" particolari in modo da tenere basso il numero degli obiettori. Alla necessità di un riconoscimento del diritto alla noncollaborazione per lo sviluppo di principi liberali e democratici è dedicata un'ampia letteratura filosofica e di dottrina politica –sviluppata nel corso dei secoli - che non è il caso, ovviamente, di richiamare qui.

 

Accenno solo al fatto che la reazione ad ordinamenti ingiusti ha animato grande parte della filosofia politica dal tardo medioevo (i cosiddetti “monarcomachi” della tarda scolastica che per primi elaborarono un diritto alla resistenza alla tirannia del monarca) fino a Locke e alla sua teoria del “diritto di resistenza” secondo la quale era data facoltà ai soggetti all'ordinamento di resistere e rovesciare poteri illegittimi. Vale solo la pena ricordare che il pensiero di Locke e la teoria della sovranità popolare elaborata da Rousseau, esercita un pesante influsso sulle rivoluzioni americana e francese e sull'elaborazione delle rispettive costituzioni e dichiarazioni dei diritti.

 

Ma per rimanere a tempi più recenti vale la pena citare un autore liberale – John Rawls – che nella sua dottrina parla espressamente di diritto alla disobbedienza civile – laddove i principi di giustizia siano violati e laddove l'operato dei rappresentanti è ingiusto. Secondo Rawls la disobbedienza civile è un tipo particolare di disobbedienza che prevede che l'atto sia funzionale ad un processo di riforma delle istituzioni sulla base della convinzione che l'atto di disobbedienza possa essere compreso e condiviso da altri. L'atto è quindi politico in quanto vuole essere d'esempio per altri e le azioni e gli obiettivi su cui i disobbedienti si basano, devono essere condivise dalla maggior parte della popolazione. Questa, in sintesi, è la posizione di J. Rawls che fornisce una chiave di interpretazione dei fenomeni di disobbedienza che hanno sconvolto la vita politica degli USA (lotte per i diritti civili delle persone di colore e contro la guerra in Vietnam) negli anni '60 e '70.

 

Per concludere vorrei parlare delle tecniche nonviolente usate nell'abbattimento dei regimi dell'ex mondo comunista dell'est europeo per promuovere istituzioni democratiche.

La lotta degli arancioni in Ucraina o la rivoluzione delle rose in Georgia si è basata su una scelta diversa da quella della guerriglia per abbattere il regime. Nessun tipo di armi, se non quelle dell'intelligenza e dell'azione nonviolenta, e sfida plateale alle dittature. Nel rapporto 2006 di Freedom House sulla libertà nel mondo si può leggere che «l'opposizione nonviolenta, anche di fronte a una dura repressione da parte delle autorità, produce molto più facilmente un risultato democratico».

 

Il principio è quello gandhiano del Satyagraha diffuso da Gene Sharp, e ritenuto uno dei massimi ricercatori e studiosi nel campo dell'azione nonviolenta. Le idee di Sharp si ritrovano dietro tutti i movimenti rivoluzionari nell'ex mondo comunista. Il suo libro From Dictatorship to Democracy è stato tradotto in moltissime lingue soprattutto dell'est Europa ma non in italiano.

Il libro centrale dell'opera di Sharp è Politica dell'azione nonviolenta, diviso in tre tomi, questo sì, tradotto in italiano per le edizioni del Gruppo Abele. La teoria di Sharp si basa sulla trasposizione politica dei meccanismi delle arti marziali: non opporsi all'attacco dell'avversario, ma uscire dalla sua linea d'azione, provocandone lo sbilanciamento a opera della sua stessa forza. Si annienta, in questo modo, la capacità dell'avversario di infliggere violenza.

 

Riguardo alla violenza il principio è quello di ribaltare il motto di Mao Zedong che sosteneva che il «potere è sulla canna del fucile». Come spiega Saul Alinsky, «Bisogna essere politicamente idioti per dire che il potere è sulla canna del fucile quando è l'avversario che possiede tutti i fucili». Lo stesso Alinski ricorda che «il potere non è quello che possiedi realmente, ma quello che i nemici pensano tu abbia». Alla base della teoria di Sharp c'è il tentativo di abituare i giovani rivoluzionari a non avere paura. «La nonviolenza di un'azione nonviolenta si basa sul coraggio». Più sono i coraggiosi, più alte le possibilità che il regime cada. Il meccanismo da cui si parte per scardinare il potere è la noncollaborazione, un principio decisamente gandhiano. Questa mancata collaborazione prevede: il boicottaggio, gli scioperi e le occupazioni nonviolente, il governo parallelo. Sharp la chiama «coercizione nonviolenta».

L'obiettivo è quello di ottenere una rivoluzione liberale e democratica. Ma l'applicazione delle tecniche nonviolente vuol dire anche creatività nella lotta politica con valanghe di azioni dimostrative già intuite da Capitini che nel suo libro sulle Tecniche descrive in modo dettagliato e che invito a rileggere.

 

Andrea Maori *

(da Notizie radicali, 3 ottobre 2008)

 

 

* Testo dell'intervento per il convegno “A proposito di Capitini… Nonviolenza l'alternativa praticabile”, svoltosi a Perugia, il 1° ottobre 2008.


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