Quest’estate sembra scorrere sul ritmo del ritorno delle divise, utilizzate per diffondere un’immagine di sicurezza che uniforma il paesaggio urbano delle nostre città, per fortuna in pace, a quello drammatico delle tante guerre che continuano e cominciano.
A questa passione per l’uniforme non sfugge la scuola e il dibattito delle famiglie in vacanza trova argomento di viva discussione sul tema dell’introduzione del grembiule.
Il problema della scuola, che si aggrava di ministero in ministero, perché i problemi non risolti generano problemi, diventa così una banale opinione sul look di scolari e studenti.
Non accende la stessa passione l’annosa questione del precariato, né la mancata riforma almeno della scuola media superiore, non parliamo poi delle questioni pedagogiche o relative ai modelli organizzativi che non interessano proprio nessuno perché “è naturale” ciò che si è a lungo sedimentato e siccome i problemi nella scuola nascono sostanzialmente dal non adeguamento della struttura ai nuovi soggetti che man mano, a partire dal dettato costituzionale, hanno cominciato ad esercitare il diritto all’istruzione (indigenti, bambine, handicappati, stranieri…) basta trovare un sistema per cancellare i soggetti e i problemi diminuiscono.
Nel merito del discorso relativo al grembiule ci si esprime utilizzando categorie arcaiche e totalmente antistoriche: i favorevoli ritengono ad esempio che la divisa favorisca l’uguaglianza e un controllo sociale dello squinternato consumismo che ha per oggetto i bambini, mentre tutti coloro che hanno conosciuto la scuola prima del ’68 e di Don Milani, tanto per stabilire un riferimento generale, sanno benissimo, spesso sulla propria pelle, che la divisa non cancella le differenze ma le riduce al silenzio: i poveri restano poveri sia quelli “di spirito” che di beni materiali, ma l’uniformità di trattamento legittima l’ipocrisia che consente la selezione di classe con criteri “oggettivi”.
Dell’uniformità di trattamento, che sta anche alla base della valutazione gerarchica che ha visibilmente fallito l’obiettivo dichiarato di promuovere i talenti e selezionare i migliori, la divisa scolastica è l’elemento più visibile e oppressivo perché mortifica la capacità dei corpi di esprimere differenze e storie nel riconoscimento reciproco dentro il collettivo classe dove possono rappresentare la radice della convivenza democratica che richiede proprio la condivisione delle regole minime necessarie per la valorizzazione del massimo delle differenze individuali.
L’obiezione relativa al cattivo gusto, che ormai il consumismo e la moda introducono nella scelta di quella “seconda pelle” che è l’abbigliamento, non è sostenibile perché il buon gusto, la misura e la sobrietà non posso essere imposti e comunque l’obbligo della divisa, se non diventa a sua volta occasione ghiotta per stilisti o indicatore di differenza sociale (come nel caso dei prestigiosi colleges inglesi o made in USA) nella sua uniformità appunto non si capisce come possa educare al gusto. Non dimentichiamo poi che la prima differenza verrebbe introdotta nella differenziazione tra maschi e femmine, ma non voglio addentrarmi di più nell’analisi di un’ipotesi che mi sembra francamente stupida se non fosse anche sospetta. Perché mi sembra difficile immaginare una finalità relativa all’uguaglianza da parte di un governo che introduce pesanti elementi di disuguaglianza e perfino di razzismo nei suoi provvedimenti. Come si tengono insieme i tagli alla scuola pubblica con il grembiule come bandiera dell’uguaglianza?
La battaglia contro il consumismo si vince sul piano economico e delle TV e anche qui non mi sembra che la dittatura mediatica imperante favorisca il consumo critico. Per tornare poi al buon gusto basterebbe affidare alla scuola il ruolo che le compete relativamente alla cultura delle giovani generazioni valorizzando economicamente socialmente e politicamente le risorse umane che spendono lì il loro tempo di lavoro.
Insomma se il problema è l’uguaglianza da un lato e la sobrietà dall’altro dateci le risorse (economiche organizzative e umane) e noi, insegnanti ragazzi ragazze bambini bambine e perfino personale scolastico in generale dagli ispettori/ispettrici a bidelle/bidelli, fuori dall’ingerenza spesso ansiosamente oppressiva o spocchiosamente incolta di genitori e vari non addetti ai lavori, possiamo produrre illuminate riflessioni e soluzioni di buon senso adeguate ai contesti e alle persone tutte.
Una cosa mi sembra evidente: questo governo è abilissimo nel trovare argomenti di effetto scenico per distrarre l’attenzione dalla complessità dei problemi. In questo modo non sparisce solo quell’opinione pubblica che dal ‘700 in poi si è fondata sul libero dibattito e l’inchiesta giornalistica, ma ci abituiamo a ridiventare sudditi, cioè coloro che possono parlare degli abiti del re ma non dire che è nudo. Come dire ‘sotto la divisa niente!’.
Rosangela Pesenti