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Peter Brun – Capitalismo e Socialismo: quale futuro?
07 Agosto 2008
 

 

Il capitalismo sta passando un difficilissimo momento che come è fisiologico nel suo sistema interno, scarica sui suoi soggetti-oggetti: le persone, le società. Il Socialismo, parola che oggi nel 2008 sembra appartenere e provenire da chissà quale galassia, è come perso nei meandri del capitalismo. Cercando di acciuffarne continuamente il cambiamento e di riformarlo, ma non ce la fa: quando arriva è già troppo tardi. E il capitalismo è già una spanna più in là, perduto nella soluzione dei suoi problemi incombenti e sempre più fisiologici alla sua stessa essenza: che senso ha continuare a produrre se non si è capaci a consumarlo? Infatti, vediamo con la crisi dei famosi ‘derivati’ finanziari, inventati dal sistema bancario americano e non solo, quali ripercussioni si sono avuti e si avranno ancora nei prossimi mesi, se non nei prossimi anni, nel sistema finanziario-commerciale-bancario-industriale-assicurativo. Cosa si vuol sapere di tutto questo sistema, quando l’altro sistema funzionale, quello dell’informazione, offre solo ciò che è sinergico a quello primario che lo controllo e lo manovra? Tutto quello che dovremmo sapere rimane più o meno ‘coperto’, come le logge, come i circoli, come i vertici, come le caste, come il potere. Il sistema capitalistico ha bisogno di essere riformato e i suoi comandanti di corvetta lo sanno benissimo, ma continuano a mandare la barca, perché – come cantava un tempo Orietta Berti – “finché la barca va lasciala andare…”. Però la barca del capitalismo comincia a fare acqua da molte parti e occorre tamponare: come? Buttando giù dalla barca chi pesa e chi la zavorra per cui va buttato giù, in mare, ai pesciolini…

Infatti vediamo chi sta andando ‘in fondo’. In questi giorni giungono notizie ‘sottovento’ di una certa importanza e che diversi osservatori più o meno indipendenti commentano. La Lehman Brothers gruppo finanziario manderà a casa 600 dipendenti. La Merrill Lynch ha annunciato che taglierà 4 mila posti di lavoro. La banca Citigroup, dopo aver annunciato 4 mila licenziamenti a gennaio, ha dichiarato che licenzierà altri 9 mila dipendenti nei prossimi dodici mesi. Secondo il Financial Times, alla fine, i disoccupati ex-Citi saranno 25 mila. La JP Morgan Chase, oltre alle sue perdite, subisce quelle dovute all’acquisto-salvataggio di Bear Stearns: di cui si prepara a sbattere fuori 14 mila dipendenti e, forse, - sempre secondo il Wall Street Journal - metà di tutti gli ex impiegati. Altri grandi istituti bancari americani in rovina stanno licenziando: 3 mila alla Washington Mutual (1,14 miliardi di perdite dichiarate), centinaia alla Wachovia e alla Well Fargo. Le grandi banche d’affari globali hanno annunciato circa 20 mila licenziamenti, di cui 6.000 solo a New York. In quella che gli USA chiamano la loro più vivace “industria” (la finanza), è un massacro. Tra USA ed Europa, i posti di lavoro scomparsi nel settore finanziario-speculativo, del credito e dei derivati, si calcolano in 70 mila. Nei prossimi 12-18 mesi il numero può salire in USA a 200 mila, secondo Celent LLC, un centro di ricerca finanziaria; secondo Esperian, un data provider, a fine 2008 gli operatori finanziari sul lastrico saranno 240 mila, sui 2 milioni di posizioni nel settore bancario commerciale (David Walsh, «As losses mount, US banks cut thousands of jobs», World Socialist Website, 19 aprile 2008).

«Non c’è più tanto bisogno di gente che sa ‘securitizzare’ debiti, dato che per quegli oggetti non c’è più mercato», ha scritto Floyd Norris, giornalista economico del Times. Sono begli stipendi e bonus profumati che scompaiono, e che fornivano il loro frizzante glamour a New York e Londra. «Fino ad ora la crisi è determinata dal settore finanziario», ha spiegato John Thain, presidente esecutivo di Merrill Lynch, «ma dobbiamo ancora vedere l’effetto sul consumatore dei prezzi calanti degli immobili, dei prezzi crescenti dell’energia e del cibo, e della disoccupazione più alta».

Non che tutti i licenziati finanziari finiscano a chiedere l’elemosina. James Cayne, il presidente della Bear Stearns ed autore della sua bancarotta, negli ultimi cinque anni ha guadagnato 155,26 milioni di dollari; anche se, prima di essere sbattuto fuori, ha potuto rivendere le sua azioni nella banca fallita per “soli” 61 milioni di dollari. Charles Prince, presidente di Citigroup, e Staney O’Neal, di Merrill, sono stati accompagnati alla porta per aver fatto perdere miliardi di dollari in speculazioni azzardatissime alle loro banche, con un gruzzoletto, rispettivamente, di 68 e di 161 milioni di dollari. Gli squali, anche feriti a morte, continuano a divorare. Non a caso il costo del metro quadro a Manhattan è salito ancora del 41% in questo anno di crisi. Sono altri i lavoratori che pagano il prezzo: i 5 mila licenziati alla AT&T, i 1.100 della Volvo Trucks, i 730 della Harley Davidson, i 477 della Siemens Automation, i 356 del Greenville Hospital di Jersey city, i 250 della immobiliare Dutch Housing. A marzo, risulta che 5 milioni di lavoratori - 400 mila più che a novembre - sono in USA a orario e paga ridotte, dato che le aziende hanno meno attività. I redditi salariali sono in declino da sei mesi consecutivi. Lo squalo del capitalismo terminale perde sangue a fiotti, ma continua a divorare. Gli hedge fund si sono buttati sui mercati-merci, provocando il rialzo speculativo del cibo (il riso è rincarato del 120% nell’anno, di cui il 75% negli ultimi due mesi). Feriti a morte, riescono ancora a fare profitti e a devastare le società con i rincari di alimenti e petrolio. Al mercato merci di Chicago, che tratta 25 materie prime agricole, il volume dei contratti è cresciuto del 20% da gennaio, superando un milione di contratti al giorno. Gli hedge fund comprano ogni giorno 30 milioni di tonnellate di soia per futura consegna... Naturalmente non si fanno consegnare questa merce voluminosa, ma rivendono i futures prima. È questo che rende la loro opera distruttiva. I futures agricoli, in mano agli operatori dell’economia reale, servono a stabilizzare i prezzi e a finanziare gli agricoltori con anticipi su raccolti futuri. I fondi hedge, comprando e vendendo futures di carta, hanno fatto impazzire questo mercato, condannando alla fame centinaia di milioni di poveracci in Asia, e provocando fenomeni di accaparramento e tesaurizzazione da parte dei Paesi produttori, che temono, se vendono il riso e grano sui mercati mondiali, di non riuscire a sfamare la loro popolazione. William Pfaff (The speculators driving food price rises, 15 aprile 2008) trova «stupefacente che in questa situazione, le istituzioni finanziarie internazionali e i regolatori di Stato non stronchino questa attività parassitaria e anti-sociale». Basterebbe riservare il mercato-merci di Chicago, e gli altri simili, agli operatori reali, quelli che davvero trattano granaglie, e che sono poche decine, e ben noti. Ma le istituzioni monetarie non lo fanno: «Il mito del mercato imparziale e benefico ha la meglio sull’evidenza contraria». Continua ad operare l’ideologia liberista dogmatica. È il capitalismo in agonia che addenta le ultime sue prede. Perché mentre i colossi della finanza crollano, e l’economia USA si restringe drasticamente in una depressione che si promette abissale, incapace di punire i colpevoli e di mettere un freno alla follia, si scopre che nel mondo, certe economie ‘vecchio stile’ stanno sostenendo la tempesta meglio di quelle che si sono adeguate al dogma liberista e che hanno puntato tutto sulla fornitura agli indebitati consumatori USA. Russia, Brasile e Australia, ricchi di materie prime, se la stanno cavando bene nonostante il rallentamento mondiale. Germania e Giappone, ancora produttori di macchinari industriali ‘pesanti’ per la produzione e non per il consumo - l’industria che gli USA hanno abbandonato - continuano a tener testa alla situazione. In Brasile, grazie alla domanda sostenuta dei suoi prodotti: minerale ferroso, caffè, zucchero, i tassi d’interesse sono addirittura calanti. L’India sta facendo meglio della Cina, perché ha un forte mercato interno che non dipende troppo dalle esportazioni in USA. La Cina, con la Thailandia, le Filippine e la Malaysia stanno subendo rallentamenti perché hanno fidato fin troppo nell’export in USA. E Paesi come Ungheria e Turchia sono nei guai per essersi indebitati troppo sui mercati finanziari. In generale, se la cavano quei settori europei che hanno compensato l’euro forte rinunciando al mercato americano, e trovandosi altri clienti. Il mercato USA sta diventando sempre meno rilevante nel mondo. Dani Rodrik, docente ad Harvard (Kennedy School), ha stabilito che i Paesi - specie dell’America Latina - che hanno seguito i consigli liberalizzatori del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, nel 1980-90, hanno sperimentato una crescita “negativa” dello 0,8% (l’Asia, intanto, cresceva del 5,6 %), e di uno stentato 1% fino al 2000. Poi, alcuni Paesi hanno rigettato le ricette del liberismo e dei suoi custodi globali (“privatizza, liberalizza, svaluta”) per adottare politiche economiche nazionali, “disapprovate” dal FMI: e stanno crescendo meglio dei vicini, e anche più del Vietnam e della Cina. I Paesi liberati sono: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Salvador, Messico, Uruguay. Nel complesso, sta emergendo un “Nuovo Ordine Mondiale”, ma ben diverso da quello immaginato dai profeti anglo-americani del mercato-mondo: è in atto uno storico dislocamento di potenza, di influenza politica, di prestigio e di ricchezza reale dall’Occidente ex avanzato al quello che era ex Terzo Mondo, o secondo mondo. In linea di massima, il potere sta sfuggendo dai Paesi in deficit di energia verso quelli che hanno energia (petrolio, gas, uranio) da vendere (Michael T. Klare, “The rise of the new energy world order”, Asia Times, 17 aprile 2008). La Cina, bisognosa di materie prime energetiche, sta però solo in teoria nel primo gruppo declinante: perché usa la sua nuova influenza politica per accordi strategici di Stato, ben lontani dal liberismo alla Adam Smith, per assicurarsi il futuro. Così la Sinopec cinese ha un accordo storico con la Aramco saudita (che un tempo apparteneva alla Exxon e Chevron) per nuove esplorazioni in Arabia; la China National Petroleum collaborerà con Gazprom, il colosso sotto controllo di Stato, per costruire oleo e gasdotti che porteranno il gas russo ai cinesi. La indiana Oil and Natural Gas Corporation (impresa pubblica) sta aiutando il Venezuela a sviluppare i suoi giacimenti di greggio pesante un tempo controllati da Chevron. Il trasferimento di ricchezza ai fornitori di greggio, gas e metalli è enorme: 970 miliardi di dollari nel 2006 e sicuramente molto più nel 2008, visti i rincari. Parte rilevante di questa ricchezza viene depositata in fondi sovrani di Stato, che stanno acquistando tutto ciò che vale qualcosa in USA, con dollari svalutati. Di imprevedibile rilevanza per il futuro è la concentrazione straordinaria del potere energetico: soli 10 Stati possiedono l’82,2% delle riserve mondiali accertate e solo tre - Russia, Iran e Katar - controllano il 55,8% dell’offerta globale. Un accordo fra Russia e Iran per la divisione pacifica ma «politica» dei mercati, senza concorrenza fra loro (che Teheran ha già proposto) eserciterà una storica tenaglia sui Paesi dell’OCSE, sviluppati, (ex) industrializzati, abituati ad un alto tenore di vita, oggi - specialmente gli USA - a credito. Inneggia a questo imprevisto nuovo ordine globale un libro che sta facendo furore in Asia: The new Asia hemisphere - The irresistible shift of global power do the East, di Kishore Mahbubani. Un diplomatico di Singapore, sostiene che i grandi Paesi asiatici, cresciuti al nuovo benessere grazie ai “valori occidentali”, libero mercato, proprietà privata e tecnologie comprese, stanno tagliando il cordone ombelicale che li subordinava alla cultura occidentale (Sreeram Chaulia, “Asia pushes, West resists”, Asia Times, 19 aprile 2008).

Oggi, una imponente ‘de-occidentalizzazione’ sarebbe in corso dalla Cina al Medio Oriente, perché questi Paesi hanno constatato come la prosperità mondiale venga oggi «messa in pericolo da processi politici occidentali fortemente antagonistici e disfunzionali», come le guerre di Bush. Vedono l’ipocrisia con cui «l’Occidente, abitato soltanto dal 12% della popolazione mondiale», si affanna a mantenere il controllo degli organismi del libero commercio globale, dal Fondo Monetario alla Banca Mondiale al WTO, fino al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, «che furono create con l’intento di servire all’umanità». Insomma, l’Asia non crede più che l’Occidente sia “la parte più civilizzata del mondo”, non è più soggiogata dal prestigio culturale di Europa ed USA.

E il Socialismo e i socialisti di questo nostro mondo che cosa stanno facendo mentre sta avvenendo tutto ciò?

 

Peter Brun


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