Si sa che al nostro buon Walter piace, e molto, e da sempre, “fare l’americano”. Dopo la fase giovanile ispirata a Kennedy, è passato al “clintonismo”, per approdare ora ad Obama. Essere definito il “Barack de noantri” non rappresenta pertanto uno sfottò ma un complimento per il leader piddino. Quindi non me ne vorrà se cercherò di incrociare la “filosofia” del suo messaggio elettorale con quella adottata dal senatore dell’Illinois.
Ovviamente partiamo dallo slogan che è simile – ma meno potente – di quello di Obama: «Yes We Can» ha ben altra forza del veltroniano-branduardiano «Si può fare». Anche perché il titolo, il refrain e lo spirito del pezzo di Angelo Branduardi evocano spazi e atmosfere diverse e lontane da un messaggio forte, di “volontà politica” quale quello sintetico e militante del «Sì, noi possiamo» del leader democratico americano. Comunque dopo la fase kennedyana del «I care», ecco una versione, un po’ casereccia e musicale di un altro slogan “made in USA”.
D’altra parte non possiamo non riconoscere una coerenza (formale) e una simpatia del nostro buon “Uolter” verso la cultura statunitense. Certo se passasse da un modello superficiale alla sostanza di una “riforma americana” allora sì che sarebbe un’altra musica! Significherebbe adottare il programma dei Radicali. Ma purtroppo non sembra proprio che sia questo il caso. Riforma delle istituzioni (presidenzialismo e collegi uninominali), della giustizia (altro che la visione poliziesca dei Di Pietro e dei Travaglio) e dell’economia (lotta anti monopolistica, liberismo, meritocrazia) non fanno certo parte del programma veltroniano.
A proposito di giustizia nel dodecalogo di Walter c’è solo un richiamo specifico al pezzo forte della linea giustizialista del caudillo molisano (e del populismo sanculotto e plebeo di Grillo): la non eleggibilità dei condannati in sede penale, a prescindere del piccolo particolare se essi abbiano o meno già scontato totalmente il proprio debito con la giustizia. Ammettendo così che sia costituzionalmente e umanamente ammissibile la creazione di una categoria di cittadini “reprobi” condannati comunque “a vita”, aldilà della pena scontata; “paria della società” condannati a non esercitare – fino a che morte non sopraggiunga – i propri diritti costituzionali. E questo sarebbe il problema della Giustizia? Siamo lontani anni luce dalla piattaforma Radicale, frutto di decenni di battaglie e referendum per la “giustizia giusta”, conquistabile soltanto con riforme radicali quali – tra tante – quella della separazione delle carriere dei magistrati, della responsabilità civile e dell’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Per non parlare della grande riforma che doveva accompagnare l’indulto (per farlo funzionare) cioè quella dell’amnistia.
A parte il punto 11° sulla giustizia, influenzato dall’accordo privilegiato con Di Pietro, e che è da scartare totalmente, quasi tutti gli altri capitoli del dodecalogo hanno un’impronta barackiana, non perché il senatore dica cose analoghe, ma per la vaghezza delle soluzioni. Cioè come Barack è stato criticato per la superficialità e l’inconsistenza del suo programma economico e sociale, così potremo fare con diversi punti di Veltroni, molto “buonisti”, anche accettabili come questioni da risolvere, ma senza alcun dettaglio su come e con quali risorse possano venire affrontati.
Il tema cruciale per il futuro dell’Italia quello della scuola, università e ricerca, lo si risolve con “l’apertura di 100 campus universitari entro il 2010” e con l’adozione di “periodi sabbatici di aggiornamento per tutti gli insegnanti”. Purtroppo i mali e i ritardi della scuola e della ricerca in Italia sono di ben altro spessore e serietà per essere risolti con queste modeste proposte veltroniane.
Sul punto 1° (che non casualmente viene collocato al primo posto) si parla con piglio deciso di infrastrutture ed ambiente cercando così di ribaltare l’immagine di immobilismo e di totale indecisionismo che il Governo Prodi ha palesato in questo campo. Le intenzioni sembrano buone: non vi sono chiusure ideologiche e si assume una posizione modernizzatrice e pragmatica; l’interrogativo è sulla quantificazione e sulla tempistica degli interventi.
Sul tema fiscale il programma veltroniano cerca di rispondere in anticipo a quella che sarà “l’arma letale” berlusconiana vista la crescita inesorabile della pressione fiscale e l’immagine non esaltante che su questo punto ha il governo uscente. Anche qui sembra chiaro lo sforzo di Veltroni di marcare una rottura col passato. Correttamente viene assunta l’esigenza di andare a graduali detrazioni Irpef per eliminare l’effetto del cosiddetto “fiscal drag”. Sembra positivo l’impegno di ridurre di un punto all’anno per tre anni delle aliquote IRPEF, così come la contrazione del costo del lavoro, legato però alla produttività.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro lo slogan “lotta alla precarietà” sembra riecheggiare parole d’ordine e provvedimenti “tradizionali” della sinistra, senza porsi invece il tema dell’ampliamento della flessibilità accompagnata dalla creazione di un’adeguata rete di ammortizzatori sociali, così come quello della necessità di adottare diversi modelli contrattualistici, decentrati e flessibili.
Ma forse la cosa più convincente è la promessa del taglio di mezzo punto all’anno sul PIL della spesa pubblica corrente primaria (1% in un biennio); promessa lodevole ma tutta da verificare: i risparmi sarebbero infatti basati soltanto sulla razionalizzazione e non anche sulla voce “costo della macchina burocratica”.
Comunque la stima che viene fatta sul costo del “pacchetto” si aggira sui 10 miliardi di euro, senza che vi sia però alcuna traccia della relativa copertura. È ovvio che questo “vuoto” pone un serio interrogativo sulla credibilità e sulla realizzabilità del programma.
Ma infine l’aspetto più preoccupante non è tanto in quello annunciato (a parte il tema “giustizia”) ma in quello mancante. Appare infatti “assordante” il silenzio sulle liberalizzazioni e sulle privatizzazioni. Senza le prime, soprattutto nei settori dei servizi controllati da aziende facenti parte della cosiddetta galassia del socialismo municipale, non potremo concretamente realizzare una seria politica di apertura del mercato alla concorrenza, con importanti effetti “anti inflazione”; e contribuire così anche alla difesa del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni delle fasce più deboli. E sulle privatizzazioni ci sarebbe ancora molto da fare: a partire dall’Alitalia, fino alle Poste.
E dire che i tentativi di liberalizzazione dei ministri Lanzillotta e Bersani, bloccati dalle corporazioni nella legislatura appena conclusa, erano stati decisamente positivi. Sarebbe stato ovvio da parte di un governo erede di quello dell’Unione, di riprendere il lavoro avviato e portarlo a termine, casomai estendendolo come da noi richiesto.
Ma se manca questo decisivo asse “liberale” ne risente tutta la filosofia di fondo del programma. Che si conferma tiepidamente “barackiano”, cioè basato più su parole ottimistiche di un nuovismo modernizzante che su di un serio impianto riformatore.
Piero Capone
(da Notizie radicali, 19 febbraio 2008)