Soffrono ma non sanno perché. Sono impulsivi e sconsiderati. Si mettono nei pasticci e poi non sono capaci di districarsene. Sono sempre di fretta eppure impiegano gran parte del tempo in cose futili. O se ne stanno chiusi nelle camerette, l’iPod attaccato all’orecchio, sprofondati in un mondo tutto loro. Sono nervosi, irascibili, a volte aggressivi. Poi improvvisamente diventano affettuosi e teneri come quando erano bambini. Sono belli, odorano di ormoni freschi. Sono un meraviglioso enigma, gli adolescenti.
È difficile descriverli. È difficile, soprattutto, capire se e quando funzionano. Se stanno crescendo bene, oppure se procedono in picchiata verso il punto zero. Il punto del non ritorno, quello in cui il male fatto a se stessi e agli altri può essere irrimediabile.
Quando devono valutare un’azione, un avvenimento, una scelta, dicono: “Dipende, per me è così, ma dipende… Ognuno decide come vuole, prof.”. Si chiama, questo modo di pensare, relativismo. Loro non lo sanno. Può essere stimolante, ma può anche generare molte confusioni e tanti errori sul piano etico.
Decidono, molto spesso, in base a sei criteri fondamentali: l’utilità, il successo, il danaro, il piacere, l’amicizia e l’amore. Sono contraddittori, paurosamente cinici e meravigliosamente idealisti.
È raro che si interessino alle questioni politiche e religiose. Preferiscono il gossip e i fatti di cronaca nera. Dicono di non essere razzisti. Basta che gli extracomunitari, che magari sono seduti nel banco accanto a loro, non vengano a rubare il posto di lavoro agli italiani. Oppure, se sono ragazzi appartenenti a famiglie di ceto elevato: “Certo, è giusto che africani, filippini, peruviani arrivino in Italia, prof.! C’è sempre bisogno di badanti e cameriere”.
Alla domenica vanno allo stadio, alcuni magari “per fare un po’ di casino”. Quasi tutti sono iscritti ai corsi di danza, o di karatè, judo, pallavolo, oppure in una squadra di calcio, sperando magari di diventare dei futuri Maradona. Poi, al pomeriggio, alla sera, tutti in gruppo, presso la panchina del parchetto sotto casa o, se sono più grandicelli, al pub e poi in discoteca. Ed è facile che il gruppo sia di ragazzi come loro: stessa estrazione sociale, culturale, etnica.
Stanno incollati per ore alla televisione, di solito non seguono i programmi culturali (come, per esempio, L’infedele o La storia siamo noi) e sono invece informatissimi sull’Isola dei famosi, Il grande fratello, Bulli e pupe o Uomini e donne. Restano incantati, come quando erano bambini, davanti agli spot pubblicitari. Seguono una moda ben precisa: pancia scoperta per le ragazze, cintura dei pantaloni sul basso ventre per tutti e vestiti firmati se i genitori pagano. Un look che li fa sentire à la page. Un look che presuppone donne magrissime e uomini muscolosi eppure al tempo stesso anche un po’ femminili.
Molte ragazze, allora, saltano regolarmente la colazione ed il pasto di mezzogiorno, approfittando dell’assenza dei genitori che nel frattempo sono a lavorare. Parecchi ragazzi, invece, si sottopongono ad esercizi fisici estenuanti pur di ottenere i tanto desiderati bicipiti modello Big Jim. Poi si vestono con maglioncini di stoffa sottilissima, dai colori tenui. Sembrano un po’ degli efebi. E così piacciono molto alle loro compagne.
Chi non si adegua si sente diverso: “È uno sfigato!”, dicono gli altri.
Ma ci sono anche quelli che il pomeriggio fanno teatro, quelli che vanno in manifestazione perché hanno in mente un motivo preciso per cui protestare. Quelli che leggono i giornali e criticano gli aspetti negativi della globalizzazione. Quelli che hanno una fede religiosa e cercano di metterla in pratica. Quelli che fanno gli scout, i corsi alla Croce Rossa, i volontari nei centri per anziani o nei ricoveri per i clochard.
Quelli che studiano con diligenza e che puntano ad affermarsi nella realtà lavorativa. Quelli che vogliono costruire un mondo più giusto. Il loro mondo, nel quale ameranno, faranno figli, soffriranno e gioiranno.
Eppure sono tutti belli. Sono belli quando fanno chiasso, quando si arrabbiano, quando piangono, quando non capiscono cosa c'è in loro che non va, cos'è che li fa stare così male. Belli e ipercinetici. Simpatici e maleducati. Generosi e individualisti. Tenerissimi e insopportabili. E sono tutti capaci, se trovano adulti che sanno toccare le corde giuste, di mettere in discussione le proprie idee, il proprio stile di vita.
Sono curiosi, genuini, irriverenti. Sono innamorati dell'amore. Stanno riscoprendo, nella sessualità, il riserbo e la prudenza.
Amore, sesso, sentimento, amicizia, vita, dolore e fedeltà sono le parole chiave su cui fissano la loro attenzione.
Politica, fede, società, morte, studio sono quelle che li allontanano.
«Ogni società, come ogni individuo, ha i figli che si merita»,1 scrive Paolo Crepet. I ragazzi sono il frutto dell'educazione che gli è stata inculcata: la famiglia e la scuola non a caso sono in crisi. Sia nell'una che nell'altra gli adulti non hanno tempo a sufficienza per parlare, soprattutto non hanno tempo di ascoltarli. I genitori sono spesso troppo permissivi, gli insegnanti invece sono ossessionati dall'esigenza di svolgere il programma e, in molti casi, ignorano del tutto le loro difficoltà, si illudono di poterli obbligare a lasciare fuori dall'aula le inquietudini, l'emotività, i dubbi. Genitori e professori sono, a volte, educatori deboli, distratti, superficiali.
Specialmente quando giocano a fare gli amici non offrono solidi punti di riferimento ai figli e agli alunni. Ma anche quando si trincerano dietro una severità che non viene motivata e che deriva dalla paura di spiegarsi, di mettersi in gioco.
Gli adolescenti, così, pagano il vuoto pedagogico nel quale sono cresciuti. E accusano sempre più una cronica mancanza di autostima, una distruttiva carenza del senso del dovere. Hanno paura del futuro, sono malinconici e nervosi. E sanno quanto sarà difficile, quasi impossibile, trovare un mestiere che permetta loro di mantenersi senza il perenne ausilio di mamma e papà. Tutti, o quasi tutti, nutrono sempre più sfiducia verso il mondo dei grandi.
Chi non ce la fa, chi proprio non riesce a placare l'ansia, la rabbia, il dolore, cerca allora di dimenticare. Maschera il disagio, simulando un coraggio che in realtà non ha. Fa il bullo, o trova modi sempre diversi e pericolosi per trasgredire alle regole. Assume dosi inverosimili di alcool, usa la “canna” per sedare l'angoscia, si accende la sigaretta ogni volta che si sente fragile. O diventa anoressico, o bulimico.
Anche i più sofferenti, però, sono spesso pronti al sorriso. In un attimo il loro umore vira a trecentosessanta gradi. Dal pianto, o dal broncio, all'allegria più sfrenata.
Perciò nelle scuole, a contatto con i ragazzi, o assistendo - inosservati - ai loro rituali di socializzazione, o ancora facendo gli allenatori, i catechisti, gli psicologi, o più semplicemente come genitori, si ha spesso, sempre più spesso, l'impressione di vivere nell'isola che non c'è. E di vedere volare, nel cielo burrascoso della vita, tanti Peter Pan, in apparenza felici di non crescere, in realtà profondamente inquieti e perennemente insofferenti. Perché non riuscire a maturare, rifiutare le responsabilità, vivere nel mito dell'eterno infantilismo a lungo andare li distrugge. Toglie loro la possibilità di emanciparsi da chi li mantiene. Li rende incapaci di progettare, di scommettere sul futuro.
Eterni bambini insoddisfatti. Ecco i giovani.
Che fare? Come fermarli? E come spingerli invece verso l'autonomia?
È necessario trasmettere loro sicurezza e stabilità. È urgente recuperare il valore della famiglia, tradizionale o allargata. È essenziale che la scuola sia anche scuola di vita. È indispensabile riscoprire l'autorevolezza del ruolo paterno, materno e del professore, dopo avere giustamente criticato e sconfitto l'autoritarismo.
C'è bisogno di adulti che non invecchino soltanto, ma che crescano realmente: dal punto di vista morale, etico e culturale. Ci vogliono famiglie attive e presenti, nelle quali dialogo e condivisione siano riferimenti quotidiani. E si deve essere genitori, zii, nonni e insegnanti, capaci di farsi rispettare, perché degni di essere rispettati.
La scuola non può assolvere solo al compito, sia pure fondamentale, dell'istruzione in senso stretto, ma deve “fare” educazione. Gli alunni non sono un sistema raziocinante in cui immettere contenuti nozionistici, come una rete di computers da dotare di volta in volta di nuovi e raffinati files; i docenti devono aiutarli a crescere e ad inserirsi in una società che essi sentono in prevalenza ostile. Processo cognitivo e formativo sono nella scuola interconnessi. A questo proposito, Paolo Crepet è ancora una volta molto incisivo: «La scuola deve reinventarsi. [...] La famiglia [...] deve riassumere le proprie responsabilità educative per un tempo sufficiente a riconoscersi: le sere, il sabato e la domenica, i giorni festivi, le vacanze».2
Quando gli adulti sanno dare ai giovani serenità ed equilibrio i ragazzi, con la loro freschezza ed il loro facile entusiasmo, tirano fuori le migliori qualità e sanno essere straordinariamente vivaci, entusiasti, aperti alla vita, alla cultura, alla creatività, all'arte, alla spiritualità. Ma è importante che si sentano compresi, capiti, amati. Se sono in difficoltà hanno bisogno di essere aiutati davvero. E se sbagliano necessitano di essere redarguiti, non giudicati.
È allora fondamentale che gli adulti ricordino la loro gioventù, gli sbagli commessi. Che non scordino quanto anch'essi sono stati terribili. Per avere la giusta misura, per accostarsi ai propri figli e allievi senza paura, senza temerne l'aggressività, l'impulsività o il silenzio. Per amarli come sono. Per accettare l'odore che emanano, il linguaggio a volte incomprensibile che usano, gli idoli in cui credono, l'energia a mille che diffondono intorno a sé.
«La storia delle generazioni che si succedono è “una storia senza fine”»,3 come ricorda bene Moni Ovadia in un breve racconto. Un limpido esempio di saggezza non solo ebraica: «Tre padri si trovano a un angolo di strada e conversano. Uno dei tre, rivolto agli altri due, dice pensosamente: “Sono preoccupato per mio figlio, frequenta cattive compagnie”. Uno degli altri due padri, un grande maestro di ermeneutica ebraica, lo guarda dritto negli occhi con durezza e osserva: “Hai ragione a essere preoccupato. Tuo figlio frequenta pessime compagnie. La peggiore sei tu”».4
Un monito, quello di Ovadia, un richiamo preciso a “fare memoria” delle proprie responsabilità di genitori e insegnanti. Perché i giovani non paghino oltre misura le distrazioni e le debolezze degli adulti. E possano giocare la loro vita a carte scoperte, con leggerezza, costanza e ottimismo. E perché quella di Peter Pan sia solo una bella favola, un ricordo dei giorni dell'infanzia. Non, invece, la gabbia dorata che i grandi hanno creato per loro. Una gabbia senza chiavi. Una prigione a vita.
Adele Desideri
1 Paolo Crepet, Non siamo capaci di ascoltarli, Riflessioni sull'infanzia e sull'adolescenza, Einaudi, 2001, pag. 118.
2 Paolo Crepet, ibidem, pag. 63.
3 Moni Ovadia, Vai a te stesso, Einaudi, 2002, pag. 75.
4 ivi.