(Dall'Annuario TELLUS 26, 2004). Mite, ma tutt’altro che remissivo fu il poeta Giovanni Bertacchi, che non si tirò mai indietro per opportunismo né mutò bandiera, pagando invece di persona in tempi in cui le differenze di opinione potevano costare addirittura il carcere. Fu, a suo modo, un ribelle e perciò ostacolato, come dice l’oblio che regna ancora su di lui e sulla sua opera a più di sessant’anni dalla morte, nonostante le lodevoli iniziative promosse a Chiavenna per ricordarne la figura e per invogliare a leggerne le opere. A partire dalla tomba e dalla lapide sulla sua casa natale che la sua città volle per lui nel 1945, terzo anniversario della morte, per passare alla lapide posta nel ‘52 sulla scuola media a lui intitolata, a cui seguirono una decina di anni dopo il busto in bronzo collocato in piazza Castello e nel 1992, cinquantesimo della morte, il convegno di studio.
Bertacchi si affacciò all’editoria nel 1888, appena finiti gli studi liceali al collegio Gallio di Como, pubblicando presso la tipografia Ogna di Chiavenna un volumetto dal titolo “Versi” sotto lo pseudonimo di Ovidius. Laureatosi quattro anni dopo all’Accademia scientifico-letteraria di Milano, si fece conoscere al grande pubblico nel 1895 con l’uscita del “Canzoniere delle Alpi”, presso Baldini & Castoldi di Milano. Delle sei raccolte che seguiranno, questa è la più nota per successo di critica e soprattutto di pubblico: arrivò al 25° migliaio di copie.
Il 1898, l’anno in cui cadeva il cinquantenario delle Cinque giornate di Milano, la gente scese in strada, questa volta non per scacciare gli occupanti austriaci, ma per protestare contro il carovita. Fu allora che il generale Fiorenzo Bava-Beccaris ordinò ai suoi artiglieri di rivolgere i cannoni contro i dimostranti: un centinaio, o forse più, furono i morti e oltre seicento i feriti. Molti intellettuali furono incarcerati. In quel frangente Bertacchi non esitò a lasciare l’insegnamento al ginnasio-liceo Parini, espatriando in volontario esilio nella vicina val Bregaglia svizzera, probabilmente anche perché temeva di essere arrestato per certi articoli precedentemente pubblicati. Fu a Soglio e a Promontogno, e in terra repubblicana lesse quanto trovò di Mazzini. Rientrato a Milano e ripreso l’insegnamento, fu chiamato nel 1915 alla cattedra di letteratura italiana presso l’università di Padova “per chiara fama di poeta”, senza concorso.
Formatosi alla filosofia positivista e agli ideali socialisti libertari, ma legato anche alla tradizione mazziniana, fu coerente socialista umanitario, vicino al riformismo di Filippo Turati: un socialismo romantico, volto a mediare tra diverse ideologie, a smussare i contrasti e a favorire la fratellanza universale e la solidarietà fra i popoli, contro ogni dittatura. Per questo ferma e intransigente fu la sua opposizione al fascismo, come risulta dagli atteggiamenti pubblici, ma anche dalle carte private del suo archivio, oggi depositato nel Fondo che porta il suo nome al Centro di studi storici valchiavennaschi. E il regime andò sempre più isolando il poeta; di conseguenza la sua fama, che a cavallo tra i due secoli era stata grandissima in Italia, si andò progressivamente affievolendo.
Non amò azioni plateali, ma – da buon montanaro – agì con ferma quotidiana coerenza, senza proteste eclatanti. A confermare la ferma avversità al fascismo, che data ai primi anni del regime, rimane la sua corrispondenza conservata nel Fondo Bertacchi. Nel 1924 il poeta aderì alla lista lombarda di opposizione costituzionale e Dante Coda de “La Stampa” di Torino si complimentò per il “suo gesto di coraggiosa rivendicazione dei principi di libertà e di giustizia”.
Per motivi politici si vide talora rifiutare la pubblicazione di sue opere, come il 25 novembre 1927, quando la Sonzogno gli comunicava di dover rinunciare alla stampa del suo discorso perché esso – si legge – “dovrà necessariamente andare fra le mani di podestà, di presidenti di circoli, di segretari fascisti, ecc. e non potrà trascurare, in certi casi, l’attuale situazione politica italiana”.
Da una parte venivano rifiutati suoi testi, dall’altra venivano richiesti. Bisogna ricordare che nel 1906 Bertacchi aveva inserito nella raccolta Alle sorgenti la poesia “Balilla”, ispirata al monumento di Genova, in cui rivive le gesta del ragazzo il quale, scagliando una pietra contro un gendarme austriaco, aveva acceso le cinque giornate che portarono alla liberazione della Liguria. Costituita dal regime, giusti vent’anni dopo, l’Opera nazionale Balilla per l’assistenza e l’educazione dei giovani tra gli 8 e i 14 anni, cominciarono ad arrivare al poeta richieste di pubblicazione della poesia. In una, del 25 luglio 1930, l’Editrice sociale Treviglio di Milano chiedeva l’autorizzazione a pubblicare tre sue liriche in un’antologia per i corsi di avviamento al lavoro; accanto a “Balilla” il poeta annotò: “No. Risposto 4.11.30”. Analogo rifiuto, per evitare che la sua composizione fosse usata come mezzo di propaganda fascista, egli oppose alla Paravia di Torino, che il 22 gennaio 1936 chiedeva di inserire la stessa poesia in una Antologia italiana a cura di Gina Algrandi di Napoli.
Bertacchi fu anche chiamato a comparire davanti ai responsabili del partito nazionale fascista per render conto del suo operato. Il 21 settembre 1934 fu convocato dal segretario federale di Sondrio, probabilmente in relazione “a un convegno per la questione del Dopolavoro che tendeva ad assorbire la Società operaia” di Chiavenna, come il poeta annota in calce alla lettera di convocazione. Durante quel ritrovo, svoltosi la sera del 29 gennaio precedente nel crotto Perego in Pratogiano, il poeta aveva dichiarato, ottenendo l’adesione dei sei amici presenti, che, se la libera Società democratica operaia fondata a Chiavenna nel 1862, fosse stata trasformata dal regime in dopolavoro, egli non si sarebbe più considerato socio onorario della stessa. Ancora una volta i crotti diventano luogo ideale per riunioni libertarie, come di nuovo saranno nel ‘44, quando sempre nei pressi di Pratogiano, in quello alla “Crosét” donato dai chiavennaschi vent’anni prima al loro poeta, sarà costituita la sezione del Comitato di liberazione nazionale.
E siamo al giuramento di fedeltà imposto dal fascismo ai docenti universitari con decreto 1227 del 28 agosto 1931, reso esecutivo l’8 ottobre seguente. Solo una dozzina di professori in tutta Italia si rifiutò, altri due scelsero la via della pensione anticipata e uno conservò il posto, pur senza giuramento. Bertacchi ebbe nell’occasione due colloqui separati con il preside di facoltà e con il rettore, che gli avevano fatto sperare – come scrive in una lettera dell’1 dicembre seguente – in “un trattamento più equo verso i non giuranti. Se non che, chiamato da questo [il rettore] la sera di sabato 28 novembre, sbrigativamente fui indotto a giurare; il che feci più con mortificazione che con la convinzione di essere moralmente impegnato da una così coatta dichiarazione. Nell’atto anzi di firmare, dissi di ritenere nullo lo stesso, di esserci stato tratto ‘per il collo’ e di essere già da quel momento deliberato a provvedere altrimenti alla mia dignità”. Il tutto alla presenza del rettore Giannino Ferrari, del direttore della segreteria dott. Violani e dell’economo dott. Giacomo Livan. E, dichiarando l’intenzione di lasciare l’insegnamento entro un anno, così conclude: “Le ragioni più mie e delicate esposte al Rettore nel colloquio di sabato 21 novembre ho riassunte oggi in lettera raccomandata a S. E. il Ministro Balbino Giuliano”.
A quanto finora detto si aggiunge una testimonianza nel libro “Chi ha paura del lupo cattivo?” di Cesare Musatti, allievo prima, collega poi del poeta come docente di psicologia a Padova: “in grande ambascia per il richiesto giuramento – scrive Musatti – fu Giovanni Bertacchi, che venne da [Concetto] Marchesi a confidarsi. Non poteva rinunciare allo stipendio perché ne aveva bisogno per mantenere i propri nipoti, e non sapeva che cosa fare. Credette di poter risolvere il problema, giurando sì, ma rilasciando contemporaneamente ad un notaio una dichiarazione da rendersi pubblica alla sua morte, in cui si diceva che aveva giurato solo per fame e non per convinzione. Marchesi rideva e gli chiedeva: ‘Ma scusami, quando sei morto, che te ne importa?’. Marchesi aveva ragione, ma … l’uomo alla propria morte non crede, e sempre agisce e scrive per l’eternità”. Musatti dimenticò o forse non conosceva il “Precetto”, scritto da Bertacchi nel 1912: “Il carro oltre passò d’erbe ripieno / e ancor ne odora la silvestre via. / Sappi fare anche tu come quel fieno: / lascia buone memorie, anima mia!”. Diversamente motivarono la loro sottomissione al regime sia lo stesso Musatti (che pure sarà in seguito allontanato dall’insegnamento per motivi politici e razziali), sia Marchesi, i quali – come confessa il primo – si allinearono alle direttive del partito comunista.
Quando, nel 1936, fu richiesto ai docenti universitari di rinnovare il giuramento al regime, il nostro non ebbe esitazioni, scegliendo il pensionamento anticipato. Lo comunicò in una nobile lettera al rettore Aldo Ferrabino. Dopo aver pagato la fedeltà alle sue idee antifasciste con quindici anni di quasi totale assenza dalla ribalta letteraria nazionale, anche se indubbiamente acuita dalle mutate poetiche, Bertacchi troncava anzitempo la sua carriera accademica, riducendosi ad elemosinare ospitalità per i suoi scritti – a titolo gratuito, s’intende – su un paio di riviste benefiche di Milano: una per i sordomuti, l’altra per i ciechi, “che – osserva Attilio Pandini – appaiono oggi come la metafora dell’Italia di quegli anni imbavagliati e oscuri”.
Né potrà vedere – Bertacchi – la caduta della dittatura, essendo morto sul finire del 1942 a 73 anni, dopo un tracollo fisico e psichico a cui non fu estranea la condizione di esiliato in patria. Solo dopo la Liberazione le sue spoglie avranno degna e solenne sepoltura sotto la rupe nel cimitero di Chiavenna, dove un sarcofago in cotto, oggi in bronzo, reca i temi più cari alla sua poetica, dalla vita dei pastori a quella degli emigranti. E voglio sperare che trovino finalmente attuazione gli auspici dettati nel 1935 in Novecento dal critico Alfredo Galletti: “penso che la voce poetica dei suoi sogni sarà ascoltata ancora con raccolta commozione quando l’eco di tante altre voci più stridenti sarà svanita”.
Guido Scaramellini