[Ringraziamo Diana Napoli (per contatti: e-mail: mir.brescia@libero.it, sito: www.storiedellastoria.it) e Daniele Lugli (per contatti: daniele.lugli@libero.it) per questa intervista realizzata il 4 dicembre 2007.
Diana Napoli, laureata in storia presso l'Università degli studi di Milano, insegna nei licei, è volontaria presso il “Centro per la nonviolenza” di Brescia, cura un sito di studi storici.
Daniele Lugli è il presidente nazionale del Movimento Nonviolento, figura storica della nonviolenza, unisce a una lunga e limpida esperienza di impegno sociale e politico anche una profonda e sottile competenza in ambito giuridico ed amministrativo, ed è persona di squisita gentilezza e saggezza grande]
– È con vero piacere che ti chiedo di iniziare da Gobetti e Tocqueville, poiché io li amo molto entrambi e so che anche tu hai per loro, diciamo, una “predisposizione” particolare. Cosa potresti dirmi?
– Innanzitutto che non condivido con molti questa passione: però tutte le volte che posso li ripropongo. Per Gobetti si tratta di vera passione, mentre per Tocqueville è una franca ammirazione, nel senso che secondo me ha compreso in anticipo, per tempo, un'infinità di questioni che poi io ho potuto visitare e conoscere un po' di più al tempo del mio impegno federalista...
– Con Spinelli?
– Spinelli l'ho incontrato, ma non tanto da poter dire di conoscerlo. Io mi sono interessato al movimento federalista tra la fine del liceo e gli inizi dell'università, tra il '58 e il '59, e a quell'epoca Spinelli mi sembrava un “moderato”, mentre io appartenevo a un gruppo più estremista, legato a una rivista, The federalist, che riprendeva scritti americani di riflessione sulla costituzione americana. L'idea era quella di creare gli Stati Uniti d'Europa, non una vaga federazione o comunità europea. Spinelli ovviamente è stato un costruttore infaticabile, che vedeva e comprendeva, pur criticandoli, passi che potevano andare in una giusta direzione, ma a noi appariva, l'intero processo, troppo lento. E in questa idea di federalismo, degli Stati Uniti d'Europa che noi volevamo, quella di Tocqueville costituiva una riflessione importante; aveva gettato uno sguardo molto lungo sulle ragioni di attrazione, ma anche sui profondi limiti, di quello che poteva essere l'esperimento della democrazia...
– ... e soprattutto i limiti di quella che sarebbe potuta essere la democrazia in Europa, perché i limiti che evidenziava sono quelli dell'Europa rispetto alla gestione della democrazia, così come lui credeva che inevitabilmente si andasse profilando all'orizzonte. Una volta hai fatto delle riflessioni ad un comitato di coordinamento del Movimento Nonviolento relativamente alla questione, che andava tanto di moda, dell'antipolitica.
Mi pareva che Tocqueville e Gobetti c'entrassero molto. Il primo con la sua idea di un'“umanità democratica” (che noi non necessariamente siamo) e il secondo con la sua analisi del fascismo come naturale esito dell'inettitudine politica della classe dirigente italiana (e non solo della classe dirigente). Stiamo andando di nuovo in quella direzione per forza?
– Per forza no, ma “in quella direzione” mi pare di sì. Nenni diceva: “Gli italiani sono socialisti e non lo sanno”. Secondo me gli italiani sono piuttosto fascisti e lo sanno abbastanza. C'è una richiesta di ordine, di qualcuno che prenda le decisioni, una richiesta di essere esentati da questa cura (e magari poi di sfogarsi in barzellette o salvo poi anche stare male se le cose diventano drammatiche) la cui presenza è evidente. In questo senso non è che mi pare importante affermare con più o meno disprezzo “questa è l'antipolitica”, poiché non penso nemmeno che ci siano dei bei tempi passati da lodare, dato che ci hanno portato esattamente qua. Non voglio dire che ci sia stato un traviamento, però ci sono stati dei punti di svolta che potevano essere colti con maggiore acume e basti pensare all'immediato dopoguerra (per carità, le vicende sono quelle che sono, e le conosciamo tutti e quindi poi magari è andata molto meglio a noi di come sia andata alla Cecoslovacchia, ma non è questo il punto). Parlo di fermenti, di capacità critiche, che, nel modo in cui il mondo si è spaccato nel dopoguerra, sono andati perduti ed è difficile pensare di recuperarli. In generale, personalità anche singole possono ancora avere qualcosa da dirci. Gobetti, per esempio resta: non solo per la straordinaria intelligenza e tensione di una persona che a 25 anni aveva fatto tutto, ma anche per l'idea che ci fosse un mondo nel quale Gobetti avrebbe potuto essere liberale, Gramsci comunista, Matteotti socialista... un mondo in cui le figure di riferimento erano altre rispetto a qualsiasi nome che possa venirmi in mente adesso. O, in anni più vicini in cui mi sono occupato di politica, mi ricordo, uno per tutti, Riccardo Lombardi, esemplare come un genere di persone capaci di stare dentro alla politica, facendone la vita, ma senza perdere la tensione al cambiamento e a mettersi in discussione: ed è questa una di quelle cose che mi pare scomparsa oggi, in cui prevale una convinzione molto “gridata” ma molto superficiale tant'è che può essere cambiata ogni secondo. Magari tutto questo indica cambiamenti più profondi in atto che non riesco a vedere, però questo aspetto di superficializzazione crescente penso sia vero ed è legato al pezzo di mondo che viviamo noi.
– “Pezzo di mondo” in senso temporale o geografico?
– In entrambi i sensi. È una parte di mondo privilegiata e insieme periferica. Non sta a noi, alla fine, prendere le decisioni sulla vita e la morte che sono prese dagli americani; noi siamo coinvolti, sì, ma le decisioni vengono prese altrove e quindi questo è un elemento che ci fa entrare molto dell'ordine di idee “io speriamo che me la cavo”, che dà la sensazione di vivere nascosti, di non essere protagonisti di quello che sta succedendo. Questo è vero anche rispetto alla costruzione europea: in realtà per molti va bene che ci sia, anzi va meglio ma che non ci sia fino in fondo, perché allora ci si dovrebbero prendere le responsabilità.
– Cioè quello che Gobetti credeva mancasse, alla fine: la responsabilità, quella per esempio che si vedeva nella lotta e non la continua conciliazione di presunti interessi...
– C'era una cosa che Gobetti diceva, di fronte a questa natura imbelle degli italiani: lui faceva l'elogio della ghigliottina, come era intitolato un suo articolo...
– Più o meno quello che scriveva anche alla fine de La Rivoluzione liberale, la speranza di un inasprirsi della lotta che forse avrebbe costituito uno stimolo per la presa di coscienza.
– Sì. A noi però questa speranza è tolta: fortunatamente, ma è tolta, ed è in questo senso che per me il piegare verso la nonviolenza ha un significato non residuale. C'era una cosa che scriveva Capitini: «dalle gocce di sangue che colano dai ceppi della decapitazione salirà l'ansia di sottrarre l'anima ad ogni collaborazione con quell'errore, e di instaurare subito, a cominciare dal proprio animo (che è il primo progresso), un nuovo modo di sentire la vita: il sentimento che il mondo ci è estraneo se ci si deve stare senza amore, senza un'apertura infinita dell'uno verso l'altro, senza una unione di sopra a tante differenze e tanto soffrire».
Ebbene, a noi la speranza di una rigenerazione attraverso una sofferenza, che passi attraverso forme di violenza estrema, ci è tolta dall'esperienza. Non è vero che questo modo di procedere “purifichi” o renda migliori. La speranza che la violenza che infliggo ai cattivi redimerà il passato, sappiamo non essere vera, perché allora questo modo di intendere la redenzione fa sì che ci sia una violenza giustificata, i processi buoni contro quelli cattivi. Robespierre, che era contro la pena di morte assolutamente, fu ineluttabilmente portato dall'onestà e dalla difesa della repubblica ad accettare il Terrore se non a promuoverlo. La nonviolenza per me ha questo carattere: non perdere nessuno degli elementi di tensione che mi fanno amare Gobetti e non perdere nulla della capacità di giudizio, di visione in avanti di Tocqueville, ma aggiungere, a ciò, la consapevolezza che viviamo insieme agli altri. Che il nostro essere sia essere tra gli altri bisogna convincersene, quale che sia il nostro personalissimo atteggiamento. Non significa ovviamente che è bello e giusto e buono essere tra le gente (anzi, peraltro il fatto che a volte una cosa sia condivisa la rende non bella ma sospetta), ma che noi siamo fatti delle nostre relazioni con gli altri e ciò comporta delle conseguenze che, per quel che mi riguarda, mi spingono verso la nonviolenza.
– E tu come sei arrivato alla nonviolenza?
– Ci sono arrivato tramite degli amici qui a Ferrara che nel novembre del 1961 fecero un digiuno in piazza, in pubblico, contro la guerra, le armi. Qualcuno era credente, qualcuno no, non erano nemmeno direttamente collegati alla marcia Perugia-Assisi che c'era appena stata: il cemento era la precisa considerazione del gesto che si apprestavano a fare. Forse non conoscevano nemmeno Capitini, io lo conoscevo un po' (in verità poi quelle persone hanno costituto il nerbo del Gan - Gruppo di Azione Nonviolenta - di Ferrara, un paio d'anni dopo). Erano persone dagli interessi differenti e che per vie diverse avevano finito per avvicinarsi a un pensiero della nonviolenza, qualcuno attratto da spiritualità anche non cristiane: Gastone Manzoli per esempio, era un lettore non solo di Gandhi, ma del pensiero indiano in generale.
Io mi ero avvicinato a loro per opposizione al 4 novembre per via della sensibilità federalista: tutto quello che dice nazione e patria è cosa da distruggere. Venivo da conferenze che organizzavo, mi ricordo, in cui per esempio un gruppo di lezioni aveva dichiaratamente questo scopo: “al termine di queste lezioni dovrebbe essere chiaro che ogni volta che si sente la parola patria si viene presi da conati di vomito”. Questo digiuno, comunque, venne rinnovato e mi ricordo che venne a Ferrara Ferruccio Parri (che per me rappresentava il massimo) in occasione di qualche celebrazione o comizio: alla fine del suo intervento, nel novembre '61, lo chiamai sul palco perché ero un giovane pieno di improntitudine (“comandante Maurizio venga...”) e lo accompagnai a conoscere questi giovani. Con loro poi sono andato a Perugia da Capitini che faceva uno dei suoi incontri in via dei Filosofi al Centro di Orientamento Religioso, era domenica. Lì, in quell'occasione, l'ho conosciuto. Non posso nemmeno dire che sia stato amore a prima vista: avevi l'impressione di una persona attenta, immersa nelle cose che faceva e attenta soprattutto a tutte le persone che c'erano... un tipo di fascino diverso dal colpo di fulmine che poteva funzionare con Danilo Dolci, che era invece uno di quei personaggi seduttivi; con Capitini avevi l'impressione di qualcuno con cui potevi cominciare a parlare, ti diceva cosa pensava ma senza imporsi, ti dava elementi di riflessione e attenzione. Poi nell'agosto del '63 c'è stato un seminario internazionale sulle tecniche della nonviolenza, di una decina di giorni. Quello è stato un seminario decisivo anche perché ha deciso la data del mio matrimonio: lavoravo da poco e non avevo diritto alle ferie e invece con la licenza matrimoniale... Ma fu decisivo anche per la qualità delle persone incontrate, oltre a Capitini, Danilo Dolci, Peter Cadogan che era il braccio destro di Bertrand Russell.
Tra l'altro all'epoca, se avessi dovuto pensare ad un punto di riferimento intellettuale, a un filosofo, ci sarebbe stato Russell più che Capitini, il quale era meno “immediato” con la sua atmosfera religiosizzante. Io ad esempio mi ero staccato dalla religione e tutti i richiami che avevano la religione al centro, se non mi indisponevano, ci mancava poco. Ma in Capitini - ci voleva rigore per comprenderlo - la nonviolenza muoveva da un sentimento religioso profondamente sentito e comunicato, mai ostentato, che era per lui uno strumento per accogliere cose che altrimenti non si è in grado di accogliere. Riconoscere questa sua capacità senza che questo ti venisse “imposto” e nemmeno reso accattivante, il suo modo di vivere una possibile trascendenza oltre le cose che vedi: tutto questo lo sentivi davvero. Capitini inoltre aveva avuto una fortissima passione politica trattenuta da un rigore che affermava a tutti i costi che la politica non poteva essere quella che gli veniva proposta. E questo lo diceva in anni che a noi sembrano chissà cosa, gli anni della Costituente per esempio, ma lui proponeva convinzioni già maturate durante l'antifascismo e la Resistenza.
Esistevano ovviamente delle priorità, erano esistite: durante il fascismo era così importante sottrarre gli uomini al fascismo che non parlava di nonviolenza, o meglio ne parlava ma senza che fosse mai un qualcosa che potesse discriminare. La nonviolenza non ti serve a discriminare ma a unire, questo elemento in lui era fortissimo ed è la cosa più importante che ho ricevuto. Io ero di orientamento socialista (e socialista allora non era una parolaccia) e con lui avevo elementi e opinioni da scambiare anche su questo terreno. Ad esempio rispetto ai compagni si potevano provare e sentire dei sentimenti di solidarietà, dei legami che non sono solo quelli dell'amicizia privata: riuscire ad estendere questo sentire progressivamente, rivolgendo a ciascuno e agli altri un tu in cui il tutti è il plurale del tu, era ed è un'operazione da fare perché tutte le cose che ci possiamo raccontare, la classe, l'umanità... sono bugie. Esse esistono solo se si è capaci di pluralizzare il tu, la forza di una relazione che senti decisiva per te.
– Ma questo modo di intendere la nonviolenza, si poteva declinare con i tipi tradizionali di politica o implicava (e implica) in assoluto un altro modo di fare politica? Oppure si potrebbe anche domandare se la nonviolenza abbia fatto o no, alla fine, politica solo in questo modo.
Diversamente sarebbe stato impossibile?
– Le cose stanno in questo modo: c'era, in quegli anni, l'ambizione di influire anche sulla politica tradizionale e non pensare che bisognasse rifare tutto un mondo a parte che poi si sarebbe rivelato: in Capitini quest'ultimo elemento non c'era. C'era in altre esperienze di cui lui aveva rispetto, come quelle molto diffuse a un certo punto di creare forme comunitarie che superassero la chiusura familiare, ma lui non diede mai vita a comunità di questo tipo. Questa ambizione di influire sulla politica “tradizionale” però non era del tutto infondata: erano gli anni in cui si trovano insieme Kennedy, Kruscev e Giovanni XXIII che diceva che bisognava essere matti per volere la guerra, c'era la percezione a livello mondiale che qualcosa stava cambiando, poteva cambiare e che le strade normali del cambiamento o affidate al gioco di due potenze non bastavano; c'era l'illusione del terzaforzismo, dei Paesi emergenti, erano gli anni in cui La Pira pensava che si potessero stabilire dei ponti sul mondo a partire da un'esperienza di una città... sono stati, quelli, anni di travaglio. In questo contesto l'idea di Capitini era: c'è un'ondata di sensibilità che sembra andare in una direzione che è da favorire, ma, se non c'è una radicalità maggiore che affronta il tema della violenza nelle sue radici, saranno onde che passano. L'idea di costituire il Movimento Nonviolento era l'idea di un qualcosa con una sua tenacia e durata ma nell'intento di influire e assumere delle priorità. E in quel momento la priorità era la battaglia per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza, che ne condensava al suo interno delle altre, poiché affermava che esistono delle leggi superiori, da Antigone in poi, a quelle che sono scritte dagli uomini.
E tuttavia sono importantissime le leggi che gli uomini sono stati capaci di scrivere: per cui la strada è quella di opporsi, ma opporsi assumendosene il carico, facendo vedere alla società cosa perdeva nel non utilizzare la tensione nonviolenta che animava e abitava l'obiezione di coscienza. Una tensione che, sia detto, nella gran parte degli obiettori era molto lontana dalla nonviolenza: la maggior parte di loro erano Testimoni di Geova. Ma in questa battaglia c'era, e Capitini lo aveva intuito, un nocciolo che, sviluppato in modi coerenti, ritornava all'idea gandhiana secondo la quale era possibile promuovere un grande sommovimento con metodi nonviolenti, l'idea di grandi lotte popolari che avessero un orientamento nonviolento, il che era argomento d'attualità nella grande stagione delle lotte studentesche con le assemblee, con la stagione del '69 delle lotte operaie.
La gente che non aveva mai parlato parla, prende la parola; nasce il movimento delle donne, soggetti che prima erano senza voce e che invece iniziano a parlare, a fare delle cose senza sparare... Quando si iniziò a sparare fu la fine del movimento. Non si trattò della sconfitta della nonviolenza ma della sconfitta di una possibilità di emancipazione. Fino a che si era tenuto un orientamento “a-violento” o “non-violento” le cose erano procedute, e dentro a questo procedere l'ambizione del Movimento Nonviolento era di essere uno stimolatore, il che, nel suo piccolo, è stato. Vanno poi considerati gli anni precedenti al grande sommovimento del '68, sono momenti nativi e in questo senso Capitini aveva avuto occhio, capacità, aveva visto con molta lucidità gli elementi che avrebbero portato alla crisi quello che io considero ancora un movimento straordinario perché ha avuto una straordinaria capacità di aprire spazi, anche se poi molte questioni e aperture e intuizioni non sono andate avanti...
– Ma in che senso Capitini ne aveva previsto la crisi pur considerandolo anch'egli positivamente?
– In quegli anni si era scoperta l'importanza dell'assemblea, del fatto che c'è gente che, insieme, prende su di sé le decisioni di quello che succederà dopo, assume su di sé tutto il valore politico dell'assemblea. C'è gente che finalmente pensa ad agire e non solo a lavorare o a produrre, per riprendere la terminologia arendtiana: finalmente c'è l'azione. Capitini questo lo riconosceva, ma aveva riconosciuto anche la fragilità dell'assemblea. Lui diceva che in assemblea ci si dovrebbe andare con reverenza. In questo sì che c'è un elemento religioso, c'è lo spirito della compresenza: in assemblea sei come un credente in chiesa che sta facendo la comunione; nel momento dell'assemblea si sta producendo qualcosa che non esisterebbe se non ci fosse lo stare assieme con una volontà. E allora il capire i propri limiti, la forza preziosa dei piccoli gruppi, l'imparare nell'assemblea a non essere una minaccia per gli altri, sono tutti elementi preziosi da salvaguardare: prima ancora di dire a chi diamo la parola, chi parlerà, l'ordine del giorno quale sarà. Nulla ha senso se non si è costruita una persuasione del perché è importante trovarsi in quel contesto per fare determinate cose. E questo elemento si è perso in fretta nel '68, si è passati presto ad un altro tipo di conclusione: io conosco il risultato giusto ed è meglio allora darsi da fare con qualsiasi mezzo, anche se non ci si arriva insieme, perché la giustezza del risultato mi giustifica. Solo se invece ci si convince che è importante arrivarci assieme, al risultato, con persuasione, allora si sta facendo un'assemblea. Infatti Capitini inventa Il potere di tutti, un foglietto insieme ad Azione Nonviolenta che indica un'urgenza da mettere in primo piano. Azione Nonviolenta poi ha potuto continuare grazie a Pietro Pinna, ha trovato altre mani che l'hanno fatta proseguire.
– Cosa è rimasto oltre ad Azione Nonviolenta?
– Per esempio restano le persone, il fatto che delle persone si avvicinano al Movimento e passano dall'interesse al prendere una qualche forma di partecipazione, trovando una loro forma di amicizia con la nonviolenza che non sarà la mia, né quella di Capitini ma sarà la loro.
Io sono legato alla nonviolenza molto su una motivazione alla Giuliano Pontara.
– Cioè?
– Cioè anche se sappiamo che stiamo sbagliando, cerchiamo di non fare errori fatali: così si spiega a volte quello che è in me proprio un ottimismo non sfrenato, con una sorta di riduzione del danno. Poiché sbagliamo abbiamo necessità di un metodo e di tecniche che minimizzino le conseguenze dei nostri errori.
– Ma questo atteggiamento é dettato dal periodo storico?
Voglio dire allora la dimensione collettiva si è persa se della nonviolenza resta solo questo, pur preziosissimo, che dici? E si è persa perché è finito il '68 o perché è questo “pezzo di mondo”, come dicevi prima, inteso in senso temporale?
– Nel '68 c'erano elementi di nonviolenza, ma c'era anche tanta violenza. Ora viviamo in una fase di forte individualismo, ma questo non è contrario alla nonviolenza: una volta che prenderà il disgusto non dei “ceppi delle decapitazioni” ma di tutto il supermercato e il lusso esistente, ciascuno potrà, anche individualmente, ritrovare dei percorsi sulla nonviolenza e dei significati che vadano in questa direzione: non è vero che non ci siano persone, anche in numero crescente, a disagio dentro alla proposta complessiva che la “società” gli fa. Gli anni del '68 erano anni in cui, come spesso succede, i tramonti fanno una gran luce: la classe operaia era finita, l'identificazione della persona come produttore era finita nella nostra realtà ma sembrava fosse ancora quella. La produzione avveniva già da altre parti, il decentramento... le condizioni per cui tutto quello che è avvenuto doveva avvenire erano già accadute, erano già pronte ma di questo ci si è accorti dopo.
– “Pastorale americana”, per certi versi. Comunque in questo contesto attuale c'è una campagna, una raccolta di firme contro le atomiche. È vero che viviamo tempi di forte individualismo, io stessa posso confessare di avere un'identità collettiva quasi inesistente e quindi forse per questo (o forse per deficienze mie personali, per carità) le parole di questa campagna e di altre simili condotte in questo periodo, non mi “parlano”, non c'è linguaggio che mi dica che questa è la cosa importante.
– Da tempo non abbiamo una campagna che abbia connotazioni precise rispetto alla nonviolenza o che dia una precisa idea del contributo che può dare la nonviolenza, ma c'è ora qualcosa, in questa campagna, che è meglio di tante altre improvvisazioni emerse negli ultimi anni. Quello che posso dire è che a volte però le campagne rischiano di essere limitate se non fanno i conti con le paure e apprensioni più profonde che, in questa società, non riguardano le armi. E per me, ad esempio, un terreno decisivo su cui misurare la capacità della nonviolenza di fare qualcosa è la questione dell'immigrazione. Pur sapendo che non possiamo dimenticare il governo, le missioni, Nato, Putin, il peggio che si prepara, mi pare che se non riusciamo a collocare tali questioni all'interno del sentire della società, a radicarle, rimangono o potrebbero rimanere estranee, come le ultime bandiere della pace alla finestra o la scritta “comune denuclearizzato” prima di essere dichiarato chiuso ai non abbienti. La pace, le armi: è una minoranza che avverte questi problemi; non esiste una maggioranza che vuole la pace ma non riesce ad esprimersi. Non è vero nemmeno che si sia, individualmente, stati capaci di superare l'idea della vendetta perché sapere di potersi vendicare fa ancora stare bene o, per essere più precisi, fa stare meglio che il sentirsi impotente rispetto ad un'eventuale ingiustizia subita. Oggi ho l'impressione che il tema della nonviolenza passi attraverso l'insoddisfazione verso un mondo che sappiamo dove va: farà prima la crisi ecologica o siamo più svelti noi a portarlo verso la catastrofe? Ma la direzione in cui sta andando la conosciamo. E a questa paura senza nome che sta sul fondo, così come alle paure che invece quotidianamente ci ritroviamo (e c'è il bullismo anche alle elementari, e che ne sarà dei miei nipoti...) o si riesce a dare una risposta puntuale, oppure tutte le risposte generose della politica sembrano poco meno che astratte.
– E ammesso che servano le risposte puntuali, la nonviolenza puo' esserlo? E, soprattutto, in quanto tale è ancora comunicabile in questo tempo di individualismo?
– È comunicabile attraverso dei percorsi abbastanza individuali, non dico all'orecchio ma quasi, comunicabile attraverso esperienze il cui senso complessivo mostri che ne “vale la pena”, attraverso il fatto che si vedono persone persuase che fanno cose importanti e attraverso il fatto che, con tutti i suoi limiti e accettando anche conseguenze pesantissime (come in Birmania), grazie alla nonviolenza si riaprono dei processi che erano chiusi e che senza la nonviolenza o con altro non si sarebbero riaperti. Comunicabile anche attraverso il fatto che si vedono persone o azioni singole in cui, al di là dell'obiettivo dell'azione, l'altro percepisce un tipo di serenità, di forza, di capacità, di orientamento, che non dispiace avere. È una nonviolenza plurale che ha la possibilità di comunicarsi.
– Per cui trasformare la nonviolenza, ad esempio, in un partito, finirebbe per farle perdere questa forza.
– Assolutamente. Tanti auguri se ci sono partiti, forze, che assumono degli orientamenti, delle idee, ma questo non è il campo della nonviolenza. Ovviamente se ci sono persone che, orientate alla nonviolenza, si impegnano anche in politica a queste va tutto il sostegno. Noi abbiamo riconosciuto, per esempio, il nostro sostegno e qualità di questo genere a uno come Langer, anche se abbiamo avuto posizioni diverse sulla guerra in Bosnia. Io non penso quindi che alle persone orientate alla nonviolenza sia vietata l'attività politica, ma di sicuro occorre essere consapevoli dei limiti che l'attività politica può comportare: siamo in una democrazia rappresentativa, ma rappresentativa sempre di meno e senza che al suo posto si siano sviluppati degli strumenti veri, efficaci di partecipazione delle persone, nel senso di persone che partecipino competenti per ciò di cui parlano. Non si è sviluppata una strategia di democrazia che abbia portato all'allargamento della capacità delle persone di decidere collettivamente insieme e non c'è un'azione consapevole che vada a sostegno di ciò. Ci sono state molte esperienza di carattere più o meno “assembleare”, ma quando chiedi ai partecipanti se dopo quell'esperienza sono più o meno consapevoli o se non hanno invece solo fatto parte di una tifoseria, la riposta non è sempre incoraggiante. Non necessariamente una questione dibattuta da tutti è una forma di omnicrazia.
– Anzi, spesso queste esperienze sono la negazione del concetto di politica secondo la Arendt, perché sono la gestione pubblica della domesticità, di un interesse privato.
– Siamo nel biopotere, amministrare il privato. Va recuperata la nobiltà dell'azione, certo senza credere che il domestico sia infimo.
Quando Capitini parlava dei C.O.S., secondo me con un'intuizione straordinaria, diceva di ascoltare e parlare e mai l'uno senza l'altro, affermando che nei C.O.S. si poteva parlare di patate e di ideali, che non erano mai l'uno senza l'altro. I due elementi erano sempre messi in tensione.
– Tu credi che la nonviolenza sia conosciuta poco?
– Dunque, da un lato mi pare che sia conosciuta poco, dall'altro assistiamo ad un uso diffuso della parola che quando avevo la tua età non c'era. La si trova negli statuti di associazioni, sugli articoli dei giornali... e questo potrebbe comportare il rischio di una banalizzazione; ad esempio negli anni di piombo era tutto un fiorire di “nonviolenti”, e se le cose continuano così probabilmente assisteremo a un rifiorire della nonviolenza che però non c'entra niente, poiché la nonviolenza è un'attenzione portata sulle dimensioni della violenza, avvertendone innanzitutto la nostra corresponsabilità, cercando di sapere quanta parte abbiamo noi in questa violenza, come la riproduciamo. Per questo, come ti dicevo, è comunicabile in modi molto particolari perché in sé non è molto “popolare” dato che ti chiede di riconoscere qualcosa e di riconoscere le tue responsabilità in quell'aspetto dato. Chiede di riconoscere, ad esempio, che c'è un pericolo autoritario ma anche di domandarsi qual è la costante complicità di ciascuno di noi con l'autoritarismo che viene avanti. La nonviolenza non è un modo per espellere la violenza semplicemente attribuendola agli altri: chiede al contrario di riconoscere una situazione in cui si è immersi, vittima e complice, coltello e piaga: questa è una tensione non facile da mantenere e non facile da trasmettere.
– A proposito di trasmissione, mi viene in mente sempre la Arendt col suo saggio su La crisi della cultura. Individualismo a parte, credi che ci sia stata, da parte della tua generazione, una vera trasmissione?
– Innanzitutto è, in sé, un messaggio che si può trasmettere. Come ho detto prima esistono dei momenti più favorevoli per farlo e questo attuale forse non lo è o, meglio, non nelle forme dei decenni precedenti. Ha altre forme di comunicazione e trasmissione. C'è per esempio la sensazione di necessità di risposte rapide, la sensazione che non ci sia tempo. Per cui da un lato si capisce che c'è tutta una serie di percorsi falliti, dall'altro però si cerca un rimedio a portata di mano perché non abbiamo tempo di far diversamente. Viene riconosciuto con abbastanza facilità che quello che si è fatto in Iraq era sbagliato, o anche in Kosovo, e che però non ci fosse altro da fare. Oppure è sempre troppo tardi, sempre troppo presto, non è mai il momento giusto e allora si mancano dei momenti che sono cruciali. Io sono convinto che per la scelta orientata alla nonviolenza (sono sempre più cauto in quello che dico) può darsi che siano stati mancati dei momenti cruciali. E li ho già citati: il dopoguerra, la fine degli anni '60 in cui la politica non è riuscita a capitalizzare l'insorgenza sociale e dal loro punto di vista di una sorta di realpolitik avevano, i politici, anche ragione perché col mondo diviso in quel modo, l'unica maniera per evitare esiti cruciali o cileni o un regresso autoritario era quello di pensare al compromesso storico... forse non si poteva vedere altro; ma se questo non fosse avvenuto e si fosse riusciti a tenere aperto uno spazio in cui le persone pensavano che il personale fosse politico non nei termini dell'amministrazione del privato nel pubblico ma nel senso in cui si sentiva che ai problemi collettivi si dovesse dare una risposta collettiva...
– In effetti il mio richiamo alla Arendt non ha funzionato. Voglio dire, tu sei l'unico che non mi ha dato una sensazione che io ho invece ricevuto parlando con altri e cioè che la nonviolenza abbia mancato la sua storia, che gli anni '60, '70, '80 siano stati i grandi anni della nonviolenza in seguito ai quali l'occasione si è persa e non si sa più cosa fare. E per quello citavo Hannah Arendt quando scriveva che in realtà si preferisce non lasciare e trasmettere nulla pur di non assumersi la responsabilità di quello che si è fatto. Come se, parlando della nonviolenza, potessi dire: quello che avete cercato di fare non vi è riuscito e per questo vi rifiutate di “lasciarlo”, consegnarlo, non si tramanda e non si lega nessun mondo, nemmeno quello fatto da macerie, ammesso sempre che siano tali.
– Ogni momento - è una lezione di Capitini - si hanno delle cose da fare orientate alla nonviolenza. Può darsi si siano dati dei momenti più atti, ma, come dice Capitini, quando si è nella persuasione, la realtà ci viene incontro. Si riescono a vedere delle aperture all'interno della realtà che altri non percepiscono. Che il mondo non è chiuso, che ha cose da offrire, che quello che c'era prima non è meglio di quello che c'è adesso, che i giovani che ci sono adesso non sono più scemi di quelli che c'erano prima (anche perché dovrebbero impegnarsi molto). E questo non è solo un generico atteggiamento di ottimismo, di speranza, ma è la verità. Mi ricordo che negli anni passati la parola geopolitica era diventata impronunciabile poiché era considerata un modo di pensare da nazisti. Oggi invece il concetto è ritornato di attualità e questo potrebbe far disperare del progresso umano... se si ragionasse solo con un'idea della nonviolenza da “trasmettere”. Ma una nonviolenza che affronti i problemi che ci sono oggi è una nonviolenza che tocca ad altre persone, anche ad un'altra generazione di pensiero e di azione, e per questo sono convinto che la nonviolenza come linea di orizzonte, indirizzo di pensiero e di azione mantenga la sua attualità, un'attualità che riguarda delle minoranze ristrette il cui problema è capire se si possa riuscire o meno a collegarsi con altre minoranze e a mettere in moto dei processi di pensiero. Ma lo diceva anche Robespierre che la virtù è sempre in minoranza...
Comunque, più in generale, io credo esistano le condizioni per una ripresa di un pensiero nonviolento legato a una condizione di insicurezza e alla percezione che le strade tradizionali sono bloccate. È difficile, certo, perché c'è una sorta di coazione a ripetere: sai che questa cosa non va ma continui a farla e a ripeterla sperando che sia la volta buona. È un atteggiamento che mi pare di vedere a tutti i livelli, anche quelli più personali, ad esempio quando si dice: “non so fare altro”, cosa che viene riconosciuta poi dalle persone come un'impotenza ad affrontare i problemi, anche minuti, che si presentano, o le paure, diciamo, che stanno sullo sfondo. Ma i giovani comunque hanno tante cose ma non mi pare che abbiano paura, o no?
– Io per esempio sono un ricettacolo di paure...
– Pensavo fossero i vecchi ad essere paurosi...
– Vediamo se riesco ad affrontare la questione da un altro punto di vista. Per esempio, dal punto di vista intellettuale, si fa fatica a tirare le somme di quello che è stata la nonviolenza. C'è questa eredità di Capitini che però mi pare si faccia fatica a recepire... o questa è la mia impressione...
– Io sono convinto della necessità di insistere sul pensiero di Capitini perché sono convinto che sia troppo poco conosciuto nei termini delle aperture che ha in sé e della capacità di guardare verso altro. Si leggerebbe, sfogliando un'enciclopedia: pensatore minore del '900 tra letteratura e filosofia, con interessi mistici; e non si colgono le aperture sulla realtà che stiamo vivendo e che lui ha visto con un occhio che guardava molto lontano. È un pensiero complesso il suo, aperto, non sistematico ma che ha fatto i conti con la realtà in cui stava, in primis il signor idealismo nelle versioni crociane e gentiliane, e poi lo storicismo, il marxismo e l'esistenzialismo. Conti fatti, ovviamente, dall'angolo che poteva essere ed era quello italiano durante il fascismo e l'immediato dopoguerra, a contatto con le teste migliori che l'apprezzavano.
Ad esempio Bobbio lo indica come maestro e non come compagno. È un signor pensiero quello di Capitini, che da questo punto di vista è poco noto.
Capitini è quello della marcia Perugia-Assisi, sarebbe come dire che san Francesco è quello che ha inventato il presepio.
– Ma perché è così poco conosciuto, allora?
– Un po' perché non viene neanche riproposto nella sua complessità. I suoi libri non vengono pubblicati, quel po' che circola ha un alone forse troppo religiosizzante se non si è guidati ad andare oltre e allo stesso tempo non è abbastanza new age per oggi. È difficile capire il senso della compresenza dei morti e dei viventi se non si fa lo sforzo di comprendere cosa voglia dire il non rassegnarsi al fatto che le persone muoiano, cosa voglia dire che una persona non è un evento, non passa ma è produttore di eventi... è anche un pensiero che formulato in altro modo si ritrova in pensatori e autori di cui ci si innamora follemente.
– Appunto, magari concetti che letti altrove innamorano, però si finisce per non innamorarsi di Aldo Capitini e io lo posso dire per esperienza: si finisce per apprezzare più Husserl e la sua fenomenologia dell'altro, perché anche Husserl è difficile e non si capisce niente, però quel po' che si capisce arriva dritto e non c'è scampo per sfuggire.
– Però io credo lo stesso che Capitini vada ben spiegato in lungo e in largo, esemplificato: varrebbe la pena di riprenderlo e riproporlo nella complessità del suo pensiero. La sua aggiunta alla filosofia, mi pare, sta nell'idea dell'apertura, l'idea che una lettura della realtà, per quanto attenta, è insufficiente, l'idea di apertura rispetto a quella di un sistema che crede di riuscire a vedere e a inglobare tutto. L'opera forse a cui Bobbio attribuisce maggiore rilevanza sul piano filosofico è La compresenza dei morti e dei viventi, un testo non facile, dove l'apertura prende lo spazio di una trascendenza... Ma non voglio dire, con questo, che qualcuno ha mancato di metterlo nel Pantheon giusto; voglio dire che secondo me quello di Capitini è un pensiero e uno stimolo che ha ancora molto, molto da dire, e perché accada è necessario capire quando è stato pensato, in quale momento parlerà e a chi parla. Nella mia esperienza, per esempio, il Capitini che ho in mente io è quello che mi ha affascinato più nel tempo, nel corso del tempo, che quello con il quale ho avuto un contatto diretto. E mi ha affascinato più nel tempo perché ne ho ritrovato la verità e lo stimolo pur essendo passato per altri autori ed esperienze. Se torno lì, ci sono delle basi buone su cui appoggiarmi pure se non è stato quello su cui mi sono formato. Nella mia biblioteca troverai tutti i francofortesi tradotti...
Diana Napoli
(da La domenica della nonviolenza, n. 144 del 30/12/2007)
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