Come alcuni di voi sapranno, qualcosa che è accaduto in Arabia Saudita qualche tempo fa ha riscosso molta attenzione. Una donna saudita è uscita per incontrare qualcuno che conosceva, e questo qualcuno era un uomo. Si è trovata in una situazione per cui sette altri uomini hanno rapito lei e il suo compagno ed hanno poi proceduto a stuprare entrambi. Invece di vedere solo i suoi persecutori portati davanti a un tribunale, questa donna, vittima di uno stupro brutale, è stata trattata come una criminale e condannata. Inizialmente, la donna ha ricevuto una sentenza a 90 frustate. Questo il suo avvocato ha fatto appello, ed ha parlato dell’ingiustizia della situazione con i media, la sentenza è stata aumentata a 6 mesi di prigione e 200 frustate.
Io, donna saudita, leale al mio governo ed al suo trattamento di eguaglianza per tutti i cittadini, mi rifiuto di accettare che sia questo il destino della donna in questione. È nostra responsabilità collettiva, come cittadini di questa nazione e del mondo, sradicare i modi di pensare e le falle nel sistema legale che permettono un tale aborto della giustizia, e cioè che una donna sia punita per un’azione che ha subito.
Non vi è base legale o islamica per tale sentenza. Sebbene sia in accordo con gli insegnamenti coranici il non incontrarsi in privato di donne e uomini, nessun castigo viene decretato per tale azione. Inoltre, osservandone il contesto, è chiaro che il precetto restrittivo è puramente un suggerimento, e non vi è traccia nel versetto specifico o in quelli successivi che permetta di dedurne delle punizioni. Che la donna abbia o no incontrato il suo conoscente in segreto, che è stata la giustificazione addotta dai giudici per imporre la fustigazione, nulla di ciò che lei ha fatto può essere classificato come un crimine. La fustigazione viene prevista per le persone che commettono “zena”, un termine usato sia per la fornicazione sia per l’adulterio. La punizione in questi casi si applica se vi sono quattro testimoni che accertano l’avvenuta penetrazione. In termini pratici, a meno che un uomo e una donna non indulgano ad atti di sconveniente esibizionismo, è impossibile incriminarli. C’è saggezza e c’è protezione dietro questo atteggiamento. Da ciò, ne consegue che non vi è giustificazione alcuna nella sharia che consenta di fustigare la donna di cui si tratta. La sua condanna è, da ogni punto di vista, non islamica: come è evidente da una lettura persino elementare dei testi.
Ciò che mi rattrista di più, di questo caso, è che ha mostrato quanto poco i musulmani siano entrati in relazione con uno dei lati maggiormente progressisti e giusti della nostra religione, ovvero la richiesta che ciascun musulmano, uomo o donna, usi le sue facoltà di pensiero critico su ogni aspetto della religione stessa. L’Islam fu promosso dal Profeta Maometto (pace su di lui) come una religione fatta di semplicità e moderazione. Il Corano è un libro di insegnamenti facile da capire. Il credo islamico si basa sull’idea centrale che non vi siano mediatori fra l’individuo e Dio. Non abbiamo bisogno di santi, di papi e persino di imam. In altre parole, si incoraggia ognuno ed ognuna a leggere il Corano per arrivare alla propria personale comprensione degli insegnamenti universali dell’Islam. Un chierico ha la sola funzione di aiutare l’individuo in tale processo.
Essere sottomessi senza possibilità di discussione ai decreti degli altri, chierici o meno, è per me indice della morte della coscienza morale dell’individuo. Potrebbe essere difficile risvegliare una coscienza morale collettiva, se a livello individuale così tante persone dormono profondamente. Io incoraggio tutti a promuovere una consapevolezza islamica e a cogliere ogni possibile occasione per discutere il caso in questione e qualsiasi altro caso simile, di modo che i nostri diritti individuali vengano rispettati.
Aiyah Saihati
(per Arab News, 13/12/2007 - trad. Maria G. Di Rienzo)
Aiyah Saihati. Ricercatrice al Cato Institute; per contatti: aiyah.saihati@gmail.com.