La lunga fila rossa di bonzi scalzi sotto la pioggia a Yangoon, è subito apparsa a tutti come un flotto di sangue che colava dal profondo del silenzio e del corpo ermeticamente chiuso della Birmania per le strade. Il sangue del colore arterioso e venoso assieme delle loro povere tonache.
Salmodiava quella sempre più lunga teoria di monaci, oltre al buddista sutra della compassione, “democrazia , democrazia”.
Poi altro sangue sulle strade, il loro sangue, misto a quello di studenti, donne, uomini che si erano uniti ai monaci...
Una manifestazione così evidente di nonviolenza politica messa in atto da tutto un popolo non si vedeva forse dalla “marcia del sale”. Ma certo non ricordo che essa avesse usato come mantra insieme precetti filosofici di vita ed evocazione di una forma politica.
Non gridavano, genericamente, né libertà, né pace, almeno così riportavano i titoli dei mezzi di stampa, ma, appunto: “democrazia, democrazia”. Come “condizione” per più libertà e pace .
Quel colore del sangue che spiccava, nel grigiore del regime, sulle fila ondeggianti di uomini in marcia era “menarca sociale” simbolo di una promessa di maturità incipiente e non più rinviabile?
Oppure era solo uno sbocco improvviso, un’emottisi di un corpo malato giunto alle soglie del suo disfacimento, della sua capacità di sopportazione?
Prima della marcia dei monaci l’ordinato svolgimento di una vita pubblica da cartolina per turisti à la page era, ormai lo sappiamo, solo, come le scheletriche modelle delle “nostre” sfilate di moda, forma dell’anoressia civile di un popolo tenuto con violenza in condizioni di precaria sopravvivenza E forse non è per caso che la testimonial di ciò (e premio Nobel, “naturalmente”), fosse una donna sottile come un giunco, Aung San Suu Kyi.
Quale marcia della pace si prospetta, fra Perugia ed Assisi, ora, e dopo che è stato chiesto che i marciatori riprendano nel loro abbigliamento il colore delle tonache buddiste?
Gli organizzatori (“la Tavola”, sempre ben imbandita) l’hanno dedicata, oltre al popolo Birmano, a quelli del Tibet, della Cecenia, e della Palestina, strumentalizzando l’iniziativa in chiave di opportunistica miserevole polemica “di schieramento”, gabellando come identiche la legittimazione e le responsabilità dei regimi (quali sono Birmania, Russia e Cina) e delle democrazie (Israele).
In spregio a quell’invocazione di “democrazia, democrazia”.
Non è più colore del sangue di tutti ma colore di bandiere di parte agitate “contro”, quel rosso che si vedrà in quella sfilata anche di narcisismo pubblico organizzato; entro cui, mi auguro, spiccherà, per diverso “decoro”, la verità storica del senso iniziale, capitiniano, della marcia, identificabile nella delegazione radicale. E che la verità, la cui forza non è resistibile a lungo, riemerga, senza clamori scomposti, per iniziativa di chi fa del Sathyagraha uno strumento essenziale di libertà e di giustizia.
Guido Biancardi
(da Notizie radicali, 5 ottobre 2007)