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Marco Cipollini: Leda e il Cigno. Con nota introduttiva.
Leda e il cigno
Leda e il cigno 
15 Giugno 2007
 

Quali mutamenti ontologici sono avvenuti fra uno dei molti stupri di Zeus su una mortale e il concepimento divino di Maria di Nazaret? Diversi e sostanziali. L’antico Dio dei fulmini violenta Leda, dato che la condiscendenza di lei è, in un certo senso, già sforzata dalla irrecusabile teofania. Zeus s’incarna come totem aviario e domina sessualmente la regina di Sparta, che genererà la madre di tutte le catastrofi. L’umile vergine di Nazaret rimane incinta del Logos, la parola divina, attraverso l’orecchio, come mostrano i dipinti tardomedioevali, e la sua è una vera accettazione dal basso; per di più quella povera popolana rimane e sarà da allora in poi la Vergine. Da lei sarà concepito il Salvatore del mondo, il figlio di Dio che è anche vero uomo, e non una semplice mortale come la luttuosa Elena.

Premesso che la parola mito non significa quella buffonata oggi in bocca a tutti, ma qualcosa di realmente esistente e operante, che cosa è avvenuto tra il mito storico (perché di un mito sorto dalla storia si tratta) di Elena di Troia e la storia mitica (perché è un evento storico divenuto esso stesso mito) di Gesù di Nazaret? (Gesù è storia e mito, né l’una senza l’altro). È accaduta la crocifissione del Messia e la sua resurrezione. Anche per chi non crede al secondo evento, che è poi quello fondante per un cristiano, l’esecuzione patibolare avvenuta su un colle spelacchiato ai bordi dell’impero romano, a cui avranno assistito tra le quindici e le venticinque persone, è obiettivamente l’evento più importante della storia umana, e come un sasso gettato in un laghetto, sta ancora espandendo i cerchi della sua realizzazione: e non solo verso il futuro, ma anche verso il passato. Perché in realtà tutto il tempo è sempre presente.

La differenza sostanziale tra il cristianesimo e un’altra religione monoteistica è che la prima non recusa l’apporto culturale di ciò che monoteistico non è, ma lo vede attraverso una lente cristocentrica. Il rifiuto delle culture “pagane” non dipende tanto dal credo monoteistico in sé, quanto da una mentalità semitica (ebraica, islamica) integralista, che non ammette compromessi. La storia ce ne sta dimostrando gli effetti disastrosi. In breve, non dobbiamo abolire quel mondo pulsionale primigenio, che è inalienabile dalla nostra natura biologica e mentale, e nel quale gli antichi situavano il dominio incontrollabile degli Dei, perché la sua accettazione critica ci rende più equilibrati e umani. Il Dio che parlò a Nazaret non ci ha dato solo l’amore, ma già con la creazione anche l’eros, ed è questo che fa funzionare la procreazione, umana e animale. Eros (leggere Esiodo) fu un Dio primigenio e terribile; i guerrieri spartani lo invocavano prima della battaglia. Elena è un burattino mosso da Eros, in seconda istanza da Afrodite. Il Cantico dei cantici, che compreso nella sua portata metaforica fa molto più arrossire che non il carme seguente, mesce positivamente l’eros con l’amore. Il cristianesimo primitivo (leggere Paolo), puntando sull’amore spirituale, ha sempre diffidato dell’eros come di un sottoprodotto animale dell’amore, una pulsione da incavezzare con il matrimonio. Diciamolo chiaramente: ha sbagliato. Lo so, allora occorreva distinguersi dai “pagani” e tutto il resto che ne consegue. Ma il volersi appellare oggi a quella prima sensibilità, così radicale ed esclusivista, come alla sola unica e veritiera è, letteralmente, fondamentalismo. Ogni epoca, ogni popolo, contribuisce alla realizzazione del cristianesimo, che non è una religione cristallizzata, ma in divenire. Tutto ciò si chiama tradizione viva. (Leggere di C. G. Jung quel capolavoro supremo che è Risposta a Giobbe.)

L’eros, dunque, e nudo, senza compromessi. Del quale non possiamo parlare, a tutt’oggi (chissà in futuro!), se non nei termini del mito antico. Perché vale, sempre, l’antico motto: conosci (fino in fondo) te stesso.

 

Marco Cipollini

 

 

Marco Cipollini: Leda e il Cigno

 

 

Un fremito nei lombi vi genera

la muraglia abbattuta, la torre e il tetto in fiamme,

e Agamennone morto.

                                                            W. B. Yeats

 

 

LA RACCOLTA DI FIORI

 

Splendida un giorno andava di Tindaro la sposa

con sette ancelle munite di ceste capaci

lungo l’Eurota, dove la sponda era sabbiosa,

viva di pioppi, vetrici, pascoli feraci.

 

Andavano a cogliere gigli, rose, narcisi,

giaggioli bianchi e violacei, ed anemoni e crochi,

ma il colchico no, velenoso; sì gli elicrisi,

sì l’asfodelo, a Persefone caro e a non pochi

 

poveri a cui era di cibo, e il gladiolo vermiglio;

l’elleboro no, spandente follia nel bestiame,

no la mandragora, no lo stramonio che al piglio

già tossico era… Leda così tra l’erbame

 

quei fiori additava da farne colme le ceste,

e tra camomilla e papaveri e pratoline

grida d’infanzia lanciavan le ancelle, le teste

chinando nel precedere a gara le vicine.

 

Lungo la riva assolata avanzavano sparse

lasciando il verde calpesto, muto di colori,

e le api, mungendo nettare a greggi ora scarse,

sui vimini ronzavano prodighi di odori,

 

non garrule però quanto le donne alla preda,

ché assai ne occorreva sia a far ghirlande e diademi

per lo stimato re e la guardatissima Leda,

sia ad aspergere petali, iridescenti emblemi,

 

sui giovani insanguati, che drizzano la cresta

davanti alle vergini dagli occhi luminosi

quando spavaldi sopportan le sferze alla festa

di Artemide e cantano le belle inni gloriosi.

 

E giunsero, caldo il mattino di primavera,

a un’ansa ove la roca correntia si slargava

tranquillamente argentea, che la riflessa spera

del Sole di aureoleosi barbagli ammaliava.

 

C’erano canne e di giunchi e di tife alti steli

dipinti sull’acqua confusi a nuvole bianche

come se cielo e terra sorridessero in veli

nuziali, al vento ondulanti. Sostarono, stanche.

                                

 

SENSAZIONI AMBIGUE

 

Madida, la regina più all’ondeggiare lento

del seno aprì lo scollo del peplo. Una zelante

ancella lesta agitò una frasca a farle vento,

altre un telo le stesero all’ombra delle piante.

 

Giacendo, attraverso un raggio la spalla discinta

cantò come perla… Le lunghe ciglia socchiuse

in un languore amabile… Sognò che sospinta

da non so che era nel fiume, le chiome profuse

 

simili si spandevano a una cròcea corolla…

Ma un piccolo strillo la punse, irritata: a riva

tra lor si schizzavano, fradice ogni midolla,

due ancor fanciulle e con voce ridevano viva.

 

Mal desta dal sogno sdrucito, Leda rivolse

a tutte la sua stizza: “serve insolenti e stolte!

Créusa, punisci la cagna che il sonno mi tolse!”

Le due si sogguardarono, le membra disciolte.

 

L’anziana un ramo sciancò lì dal salice e prese

su un dorso e sull’altro a vibrarlo; zitta il tormento

subiva ognuna: a Sparta chiunque geme alle offese

corporee, da sé il castigo più rende violento.

 

Leda, a nobili nozze sempre illesa la pelle,

fu allora turbata da Pan, che domina il giorno,

e come un oscuro miele assaggiò a veder quelle,

un’invidia sì dolce che da cieco frastorno

 

presa, indulse nella pena. La decana intanto

colpiva più rada, in attesa; finché, striate

di rosso le vergini, a cui tremolava il pianto,

la regina da quelle sensazioni maculate

 

si riscosse, stranita, “basta così” dicendo,

e a scacciare ogni estro voglia di un bagno ebbe,

così assecondando il suo sogno: il peplo stupendo

scivolò al suolo e fu nuda. Di lei non sarebbe

 

stata più bella una ninfa che corre sui monti,

né la stessa Afrodite se fosse ancor dall’onda

di Cipro fulgida sorta, allorché gli orizzonti

tacquero e l’ampia il vento chioma le sciolse bionda.

 

 

IL BAGNO DELLA REGINA

 

Ella marmorea in acque s’immerse trasparenti,

e cangiarono opàlee, sul carneo stelo il volto

sbocciava come un giglio. D’intorno le assistenti

i larghi sipariarono pepli, se tra il folto

 

spiasse un irsuto pastore… Saltò spaventato

giù da un sasso un ranocchio. Solo, fra le ampie sponde,

di lei il tenue sciacquio. Nel vasto vuoto assolato

due tortore, remote. Sì e no un frusciar di fronde.

 

Ma al cielo era specchio il liquido vetro del fiume,

e Zeus di femmina umana intravide la carne

pallida come sottile alabastro che a un lume

fa schermo, e il dio godimento per sé volle trarne.

 

Così dalle olimpiche nubi discese in forma

di cigno e d’Eurota volò alla tersa corrente.

Lassù il punto bianco una scòrse, gridò la torma

alla candida in cielo rapidità crescente.

 

Lei alzò lo sguardo cerulo e l’ombra su trasvolante

(fu un soffio) lo velò di un presagire lontano,

seguì l’alata creatura, che calò distante

un tiro di sasso, come sul trono un sovrano

 

si posò sulle placide acque balaustrate

di canne mormoranti lusinghe di Sirene,

le ali soavemente ancor movendo spiegate

parevano invitarla (sbigottì) a un sacro imene.

 

Perduto le urtò il cuore in seno, di una regina

non altro aveva che di aurei pendenti il decoro,

e sonnambula uscendo dall’onda cristallina,

diafana la vestiva profluvie acquosa d’oro.

 

Balbettò, cenno fece di andarsene alle ancelle,

di lasciarla soletta con quell’innocuo alato

per non intimorirlo, di ritrarsi oltre quelle

tife, in silenzio, e sferzate a chi avesse parlato.

 

Via scivolaron, quali foglie sulla corrente,

immerse a mezza vita, dei colpi timorose,

e si strinsero dove, ma zitte, cautamente,

si facevan le sbarre meno folte e fogliose.

 

 

LE NOZZE DIVINE

 

L’una l’altra spingeva per occhieggiare un poco

tra stelo e stelo un palpito di biondo o di bianco,

né Créusa burbera le tratteneva né il fuoco

delle fresche ferite sulla schiena e sul fianco;

 

da dietro, le altre tendevano il lobo inadorno

a lambir qualche sprazzo di riso, o scuotimento

di ali in fuga, o strillar bocca di carne o di corno,

e che godio tornasse la padrona in lamento!

 

Intanto ella in silenzio nuotando sinuosa a

l’angelica bestia, il cui innaturale candore

i suoi occhi succhiavano, tal che luminosa

più si fa una candela più la strugge l’ardore, e

 

come all’amato atteso di desio donna langue,

con densi di dolcezza occhi lo cerca, lei il cigno

rimirava, sì che un’oscura febbre nel sangue

le infuse, un caldo mosto nel suo purpureo scrigno.

 

Ampie in candida gloria spalancò a lei che emerse

lattea le ali; ma a farle crollare ogni difesa

fu il flessuoso collo che rigido si aderse:

si slanciò, gocciolante oro la chioma, a far presa

 

con le unghie sul suo petto dilatato e piumoso,

raggrinziti i capezzoli dal selvaggio cuore,

le ginocchia snervate da quel voluttuoso

abbraccio, rovesciò inerme il capo al molle afrore.

 

E l’uccello maestoso, cui si aggrappava, a riva

la sospinse, e sull’erba si prostrò resupina

all’orrore gioioso che gli occhi le imbruniva

semichiusi, e dov’era la carne vellutina,

 

sforzate le sue cosce con le zampe palmate

che di sei lividure sigillarono a enigma,

il dio fin nelle sue la penetrò abbacinate

avide viscere col folgorante suo stigma.

 

Tutto femmina il corpo, da agonia e godimento

fu avvinta, una vertigine il cui apice attinse

come nel suo sacello sgorgò il seme violento:

del futuro i suoi occhi sbarrati il fato incinse.

 

 

IL MUTO VATICINIO

 

Quei globi, nerolustri come infere perle,

fissi lì a dominarla, le apparvero miniati

di disastri che agli anni s’incrunavano per le

sue réni regali… Mortali ancora non nati

 

vide e una donna bellissima, sposa e regina,

e un principe straniero, con lui a notte fuggire

su una nave, ed accolti da una città in collina,

e uno sciame di occhiute prore là convenire,

 

e mille nella polvere eroi per lei caduti,

e l’urlo delle madri, delle spose amputate

del caro bene, gli atti più generosi e bruti

tra il clangore di bronzi abbaglianti, di esaltate

 

genealogie, e sulle mura com’Espero apparsa

l’origine dei lutti, la battaglia bloccarsi,

manichini inceppati sulla piana riarsa

gridar tutti il suo nome, di nuovo massacrarsi,

 

e colossale vide sulla spiaggia un cavallo,

in città trascinato poi attraverso una breccia,

fauci di fiamme i tetti, frangenti di metallo,

sfondar l’occhio che vede fino in fondo la freccia,

 

e la donna in ginocchio spalancare alla spada

di chi amò in primo letto le splendide mammelle,

e ad esse, inobliate, sciogliersi il pugno, rada

poi la folla guerriera, solo faville e stelle,

 

e l’unica reliquia di gesta insanguinate

un cieco, eco nei secoli, perpetuar cantore…

Tutto in un lampo bevvero le sue ciglia beate

e inorridite, chiuse da un mortale languore.

 

E fu d’ali e di piume sbattimento accecante,

il divino animale fra le nubi disparve.

Leda, sola sull’erba, stordita e dolorante,

le immagini fatali svanite come larve.

 

E tornò la regina con le sue sette ancelle

gravate di canestri, su cui un ronzio era d’api:

li tenevano, stando oblique, tra fianchi e ascelle;

le più abili, dritte, in equilibrio sui capi.

 

 

Maggio 2007

                    



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