Maria Sibylla Merian non ebbe paura di vermi, blatte, scorpioni, serpenti, tarantole “pelosi come orsi” e più grandi della sua mano; figuriamoci se poteva temere gli uomini della sua epoca. Artista, scienziata, imprenditrice, divorziata, infine viaggiatrice senza maschi attorno; questa elegante avventurosa signora di tre secoli fa pare oggi una specie di eroina protofemminista nelle sue due patrie, la Germania e l’Olanda che colpì perfino Goethe. La sua è una storia che si volge sullo sfondo di un secolo di grandi transizioni, dagli assolutismi agli illuministi, dalla alchimie alle scienze, dal pressappoco alla precisione.
Sono stati i disegni di Maria Sybilla ad incuriosire l’autrice del libro Nel gran teatro della natura (Pendagron editore, 2022, 233 pp., 18 euro) di Brunella Torresin. Questi disegni sono quadretti freschissimi e meticolosamente dettagliati di piante e animaletti curiosi e magari anche disgustosi, come insetti, le falene, le larve, i bruchi opera di una pittrice vissuta a Francoforte (ma anche in altre città tedesche e ad Amsterdam) a cavallo tra Sei e Settecento, figlia d’arte, padre tipografo, dinastia di editori, incisori, artisti. Un ritratto del 1679 ci mostra Merian trentaduenne, espressione sospesa fra gentilezza e determinazione, grandi orecchini di perle e una casta veletta sulle spalle, Bambina prodigio, in tenera età già maneggiava pennelli e bulino, e coltivava una passione inopinata, chissà se psicologicamente spiegabile, per i bruchi e la loro metamorfosi in farfalle. Li disegnava, ma per farlo prima li catturava, come fece per tutta la vita con ogni sorta di esapode ottopode o esserino alato che fosse. Ne fece per mezzo secolo un mestiere, di osservarli, fermarne il volo gli stadi di trasformazione (in un epoca che non conosceva la fotografia) e ricavarne volumi e dispense che andavano a ruba fra collezionisti, studiosi e amanti delle arti. Trovò il tempo di sposarsi, fare due figli, divorziare, riprendersi il cognome da nubile, chiudersi in una comunità calvinista rigorosa, prima di affrontare la sfida che diede senso a tutta la sua vita.
A 52 anni, un’età che per i contemporanei già “notevolmente avanzata”, vendette tutti i suoi averi e li investì in un costoso, lungo, pericoloso viaggio verso i Caraibi, precisamente il Suriname, colonia olandese; perché lì, lei lo sapeva bene, prosperavano bruchi e insetti grandi e meravigliosi. Compiuto solo con la figlia ventunenne altrettanto intraprendente, il viaggio di Maria Sibylla sembrò inusitato allora, ed ancora è affascinante per Torresin che ci racconta con simpatia, narrativamente corretta ma evidente, ricostruendoli vivacemente attraverso i pochi scritti autobiografici (e fortunatamente le molte lettere), quei due anni fantastici trascorsi dalla sua indipendenza, temeraria eroina in quel paradiso di artropodi, mantidi, rettili, gridando di gioia ad ogni scoperta di esemplari sconosciuti, osservando con la lente le omeriche microscopiche battaglie fra ragni e formiche, trasformando la sua abitazione precaria in un terrario in cui gli ospiti coriacei spesso distruggevano le gabbie sciamando per la casa.
L’esito di quel viaggio fu un corposo volume, Metamorpsis insectorum (Amsterdam, 1705) che resistette alle inevitabili critiche dei posteri, forse e soprattutto per quelle spettacolari illustrazioni, così vivide ed eleganti a dispetto dei loro soggetti. Erano, quelli anni in cui estetica e sapienza esitavano a lasciarsi la mano, per un ultimo irripetibile connubio tra arte e scienza, e Maria Sibylla li visse in pieno equilibrio, da “artista naturalista interessata alle relazioni fra una specie e il suo habitat”, ma anche la donna consapevole del suo tempo: dietro di lei Toresin riesce ad animare sapientemente una scena coloniale piena di contraddizioni (Meriam è spesso critica verso l’inerzia e le cattive abitudini dei coloni, di cui tollera lo schiavismo, ed ha uno scambio intenso con i suoi preziosi informatori indigeni, possessori di un sapere secolare sulla microfauna dei luoghi), e soprattutto lo spirito di un’epoca di forti contrasti a cui una donna “modesta nei modi, temeraria nello spirito” seppe regalare un’esistenza unica, orgogliosa, anticipatrice, assieme al suo “virtuosismo pieno di eleganza e di meraviglia”.
M.P.F.