Partii con la luna nuova
senz’anima
senza tormento
senza lume
(Griselda Doka)
La poesia di Griselda Doka, nata in Abania e oggi residente in Italia, trova metaforicamente il suo humus fecondo e creativo nella terra e nelle radici e da lì si dirama in molteplici sfumature, affrontando in modo sostanziale e necessario i conflitti e le lacerazioni insanabili, che caratterizzano le partenze e l’abbandono della propria terra d’origine. Dall’individuale al collettivo, dunque -dei nostri Sud/ lasciati alle spalle- alla storia del popolo Arbëreshë, la cui emigrazione nei secoli ha costituito e costituisce una caratteristica fondamentale della gente e del popolo albanese.
Aleggia nei suoi versi il tema dell’esilio, della solitudine, del viaggio, ma anche del rapporto con la cultura e della terra in cui vive. C’è tanto del suo nuovo mondo, ma anche tanta Albania nei suoi versi.
Tutto ruota intorno allo sradicamento dei migranti, all’incontro con un’altra realtà nel tentativo di riconoscersi e di ritrovare l’identità perduta “Ero polvere dispersa sulle colline/ sui pioppi e sulle ciglia/ un sogno bianco/ in una notte nera/ il respiro che permette di riconoscerci/ anche da fermi” (p. 87). Accanto al dramma delle radici, è vivo anche il dramma della lingua “Mi dimentico parole importanti tanto da temer che la mia lingua mi sia diventata matrigna o (al mal minore), sicuramente ostile mi sento disadattata essere fuori e dentro ogni cosa contemporaneamente” (p.42). Griselda Doka è poeta bilingue, compone in italiano e in albanese, ma negli ultimi anni scrive prevalentemente in quella che per lei è diventata ormai lingua adottiva (segno di integrazione e di appartenenza). Molti scrittori albanesi, infatti, hanno scelto l’italiano per fare poesia, per creare romanzi e racconti che appartengono a pieno titolo alla ’nuova’ letteratura italiana.
La sua scrittura nasce da un’urgenza di appartenenza, come perimetro e contatto con il mondo interiore. È asciutta, diretta, vicina alla concretezza della vita, ma anche fortemente evocativa ed onirica, ricca di riferimenti al mondo mitologico e leggendario della sua terra “faceva i voti la bisnonna e Abas Alì sembrava accogliesse tutti i suoi bisbigli tanto che nei sogni tuttora scappo di corsa mi perseguita il vecchio col cavallo e la frusta in mano (p. 77). Aspetti all’apparenza contraddittori, che intrecciandosi le conferiscono levità, grande forza e potere suggestivo.
Accanto ai perché, alle domande senza risposta, all’affannosa ricerca di senso, alla difficoltà di tenere vivi i ricordi, affiora il tema nostalgico e millenario di un Eden perduto “C’era un luogo in cui ho vissuto/ in un tempo senza memoria/ con soli quattro occhi e un cammino acceso/ C’era un intreccio di mani/ e il silenzio/ ecco, quel luogo mi piaceva/ era la mia Casa” (p. 17). Presente e passato si avvicendano sulla pagina, lasciandoci comprendere quanto della ‘propria terra’ ognuno porta con sé, richiamandoci i percorsi di vita di John Fante o Carmine Abate (solo per citare alcuni nomi che mi sento di accostare al mio e al suo percorso).
La poesia di Griselda Doka, come tutta la letteratura della migrazione affronta un tema delicato ed urgente, quello di una frattura, di una lacerazione, di una lontananza, che spesso non si riesce mai a rimarginare del tutto, ma anche di un percorso umano come capacità di riconoscimento dell’altro. “Non è difficile, invece, riconoscere il dolore / dietro gli sguardi stanchi / dove la sofferenza viaggia come una massa amorfa / appoggiata su stive di valigie / dolori arrugginiti sulle corde delle navi / addii soffocati /abbracci sospesi...” (p. 16).
Siamo nella sfera di valori sicuramente universali, di una scrittura che sta tutta dentro la verità e la vita, con le voce, i gesti, i sentimenti, e lo fa in modo onesto e trasparente come occasione di indagine, cambiamento e metamorfosi.
Griselda Doka, con Il leggero transito delle parole è alla sua terza raccolta poetica e, come tutti i migranti e i figli dei migranti, con epico istinto di sopravvivenza e di appartenenza ad un popolo fiero ed orgoglioso, cerca anch’essa una sosta, una stazione, una ‘fermata’, ciò che il romanziere Carmine Abate chiama “una pacificazione”: “Cantate, il Ricordo e la Ferita le infinite primavere lasciate alle spalle cantate, infine, anche il mio canto per le valli e le colline e non chiedetemi chi ero chi sono” (p. 17). Nei suoi bisbigli antichi, nello scandaglio interiore, nelle cicatrici che si aprono a ventaglio, nelle valigie e nei fantasmi interiori, non c’è mai vittimismo o ripiegamento, c’è sempre forza, coraggio, energia positiva e costruttiva “Reclamerò la luce fino all’ultimo giorno perché è così che amo come la gemma che scoppia alla vista del lampo e si piega dolcemente alla pioggia” (p. 41). E mi piace concludere questa breve nota riportando i versi di una poesia dell’autrice stessa, che è elevata preghiera dal fascino indiscusso ed eloquente, perché in essa c’è umiltà e fierezza, accettazione e affidamento, sacrificio e speranza.
La forza della roccia l’ho avuta
Dio, portami ora la dolcezza della pioggia
sulle spalle – la morbidezza del pipistrello smarrito
sulle palpebre – il silenzio delle lucciole
sul collo – il respiro rassicurante
La durezza della roccia l’ho avuta, Dio
concedimi ora mani morbide sul seno
e ruscelli tiepidi sotto i piedi
Griselda Doka, da Il transito leggero delle parole (p. 51)
Maria Pina Ciancio
Griselda Doka, Il leggero transito delle parole
Macabor, 2023, pp. 102, € 12,00