Scrive Angelo Andreotti nella sua ultima raccolta di poesie Tra parola e mondo edita da Manni Editore: “Sotto il giallo della lampada/ un libro che entrambe le mani reggono./ La campana di luce lascia fuori/ l’inesistenza del mondo, la sua/ inconsistente realtà, sempre incompiuta./ Il tuo sguardo si ferma su una riga/ che entra nella tua mente silenziosa/ uscendo in un corpo di voce// [Le parole erano dette come se il libro non ci fosse]// e ti asserraglia a un tempo mobile// e buio e luce si scambiano il posto”.
Un libro che entrambe le mani reggono. Ma sono le mani a reggere il libro? O è il libro che ci regge attraverso quelle mani appoggiate? Un atto, l’appoggiare le mani, che all’improvviso diventa raccordo, e (forse) anche segno, di parola e mondo. Estremità, le mani, che istintivamente si appropriano del libro. Perché appropriarsene significa accantonare la propria fisicità. Significa scivolare, fino a caderci dentro, in quella riga o parola che ci sbalza e sbalzandoci riorienta la percezione e la materia che siamo, la nostra inquadratura di soggetto e oggetto. Mani-libro. Soggetto le mani e oggetto il libro? Oggetto il libro che è parola, ossia etica estetica e volontà vivente? No, soggetto anche il libro. Soggetto che si riversa nel soggetto mani. Che tatua sulle mani le sue parole. E a quel punto il libro può ritirarsi, può lasciare vivere le sole parole. E le mani, tatuate di parole, perdono la loro consistenza, cedono il passo alla mente, alla voce che sprigiona le parole appena prima lì, nella rete delle mani. Ed è in questo istante, nell’istante che si fa, in cui ci si fa, esperienza di parola così sprigionata, che il mondo realisticamente è. Per ogni parola una scheggia di senso per il mondo. In ogni parola una scheggia di mondo che viene inglobato. E così ci si incide nel tempo. Ci si protegge e lo si protegge in un processo in cui la chiusura e la rigidità dei poli luce/buio viene scardinata, resa totalmente fluida.
Tra parola e mondo, dunque. Per accadere. Per farsi identità. Con un monito: “Fai piano, non correre/ più in là delle parole, non ferire/ con il bastone che spalanca porte/ ancora prima di bussare, chiedi,/ come la luce invernale chiede/ il colore delle cose al sole”. Non correre ma chiedi. Perché è nella parola che il mondo realmente è e si accade. Oltrepassandola non ci si compie. E niente è compiuto.
In questa consapevolezza vive la scrittura di Angelo Andreotti. Una scrittura che guarda alla parola e al mondo con tensione e stupore, oggettivando e trasfigurando. E umanizzando: “Con breve inclinazione l’ombra scivola,/ poi si nasconde volgendosi al muro/ dove trascrive l’impronta di un albero/ che con pazienza sorseggia la luce.// sarà per l’aria abbondante di gialli/ e di profumi aggallati che stendo/ la mia ombra sulla terra e mi ci sdraio// e ti guardo, mio mondo,/ con la sete di questo albero”.
Tutto nella parola di Angelo Andreotti acquista lo stesso volto dell’essere, e per questo la sete di un albero può essere, e di fatto lo è, la nostra stessa sete. Coincidenza e abbraccio vivo. Possibili solo nell’impeto e nella bellezza della parola lasciata accadere e accolta. Come succede in Tra parola e mondo.
Silvia Comoglio
Angelo Andreotti, Tra parola e mondo
Manni, 2021, pp. 120, € 14,00