Non è un caso che, davanti al popolo di Roma opportunamente convocato, ad annunciare la guerra già dichiarata alla Francia e alla Gran Bretagna, il 10 giugno 1940, tra gli alti gerarchi fascisti, ci fosse solo Mussolini. Perché era lui che fortemente la voleva, non altri. Non la voleva Dino Grandi, ambasciatore a Londra fino al ’39 dove aveva stabilito buoni rapporti con gli inglesi; non la voleva Giuseppe Bottai,* già Ministro delle Corporazioni prima e dell’Educazione nazionale poi; non la voleva Italo Balbo, il famoso trasvolatore dell’Atlantico inviato dal duce in Libia come governatore perché non gli facesse ombra con la sua grandissima popolarità ed inoltre amico di ebrei; non la voleva Galeazzo Ciano, che non trovava alcuna empatia per il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop e che era riuscito a convincere temporaneamente il duce della necessità della non belligeranza; non la voleva il duca D’Acquarone che, preoccupato, aveva già chiesto a Ciano quante probabilità avevamo di evitare la guerra; tantomeno la voleva il Re Vittorio Emanuele III, intimorito dalle conseguenze nefaste per la dinastia in caso di sconfitta e, con lui, gli ambienti vicino alla Corona. Tutti, poi, avevano una spiccata antipatia, personale prima ancora che politica, nei confronti dei tedeschi contro i quali, del resto, si era combattuto nel corso della prima guerra mondiale. Anche i ragazzi apprendevano sui banchi di scuola i miti antitedeschi derivanti dalla nostra storia, per la quale il tedesco è il nemico naturale, tradizionale, secolare. Nessuno di loro, inoltre, si fidava di Hitler e degli uomini che lo attorniavano, a cominciare da Ribbentrop e per seguire con Himmler, Heydriche, Goebbels, Goring e tanti altri. Tantomeno la volevano i diversi generali dell’Esercito, dell’Aviazione, e della stessa Marina, ben consapevoli del nostro grado di impreparazione militare, della mancanza di carburante e di altri mezzi idonei ad affrontare una guerra. A desiderarla c’erano solo i convenuti a Piazza del Popolo, opportunamente istruiti dalle varie organizzazioni fasciste.
Ci si può, ci si deve chiedere: ma allora, se nessuno degli stessi fascisti al momento più influenti voleva la guerra, perché la stessa fu dichiarata, consegnandola agli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna, come annunziato trionfalmente da Mussolini alle ore 18 di quell’infausto 10 giugno 1940? La risposta, brutale ma veritiera, è una sola: in una dittatura una sola voce conta, per strampalata che sia; agli altri non spetta che adeguarsi, pur con qualche riluttanza, ai voleri del Capo. Questo c’insegna la Storia d’Italia, e non solo d’Italia.
Il 25 luglio 1943, dopo una serie interminabile di prevedibili sconfitte su tutti i fronti, e con gli Alleati che stavano conquistando la Sicilia, i citati personaggi e molti altri si ritrovarono alla riunione del Gran Consiglio del fascio, non più convocato dal 1939. Lo decise lo stesso Mussolini. La riunione ebbe inizio la sera del 24 luglio. Grandi illustrò il proprio ordine del giorno col quale si esautorava il duce dal comando delle forze armate, per restituirlo al Re. Lo appoggiarono Bottai, Ciano e tanti altri. Mussolini addossò ai generali la responsabilità delle sconfitte. Ormai all’alba del 25 luglio, dopo molti interventi, si addivenne al voto, che diede questo risultato: 19 voti a favore dell’ordine del giorno Grandi, 7 contrari, 1 astenuto. A questo punto Mussolini esclamò: “Signori, con questo odg avete aperto la crisi del regime”. La conduzione delle forze armate ritornava al Re. Nel pomeriggio Vittorio Emanuele III, dopo un breve colloquio con Mussolini, lo fece arrestare dai carabinieri.
A proposito di quel voto, molti storici, anche oggi, parlano di colpo di Stato, vista la comunanza d’intenti tra membri del Consiglio del Fascio ed ambienti vicini alla Corona. Non sono d’accordo. Il 25 Luglio si consumò solo la defenestrazione di Mussolini con un metodo tipicamente democratico. Scriverà infatti Carlo Scorza, al momento dei fatti segretario del PNF e verbalizzante della riunione: “Suprema ironia, un regime antiparlamentare, antidemocratico, una dittatura precipitava, – peggio ancora, si spegneva – con una procedura tipicamente democratica: la votazione per appello nominale di un documento accettato dal suo Capo”.
Non contento degli orrori prodotti, una volta liberato dai tedeschi fondò la Repubblica sociale italiana, che si distinse unicamente per l’assoluta dipendenza nei confronti della Germania nazista e, assieme a questa, si rese corresponsabile delle stragi e dei morti durante i 600 giorni della sua durata. Purtroppo, a pagar le conseguenze delle scelte scellerate di Mussolini furono in tanti. Tanti morti italiani. Morti in Francia, in Africa, in Grecia, nei Balcani, in Russia; morti sotto le bombe nelle nostre città; morti per quelle che i tedeschi chiamavano rappresaglie quando erano solo crimini verso i civili; morti combattendo da partigiani sulle montagne contro i responsabili dello scempio, morti nelle carceri sotto le torture, morti impiccati nei campi, morti per le strade delle nostre città, morti nei campi di lavoro o di sterminio tedeschi. Morti per riacquistare la libertà e, finalmente, la pace.
Sergio Caivano
* Nel 1944 Bottai si arruolò nella Legione straniera francese e combatté contro i tedeschi.