Lo sfogo degli infermieri dell’Ospedale Maggiore di Bologna (Non siamo eroi) mi aiuta a tirare fuori dal gozzo quello che da molti giorni mi dava un enorme fastidio.
Non amo fare il bastian contrario, men che meno épater les bourgeois, ma non ne potevo più della retorica degli eroi del coronavirus. Sia ben chiaro, coloro che lavorano in condizioni di elevato e inevitabile rischio professionale hanno da sempre la mia considerazione e il mio rispetto, ma scegliere di lavorare in quegli ambiti è determinato da due fattori: quella che si dice una vocazione, laicamente parlando, o una scelta di ripiego. Ricordate cosa disse Pasolini sui giovani poliziotti: “figli dei poveri, vengono da periferie, contadine”, la loro era una scelta di sopravvivenza. In entrambe le opzioni si è, si deve comunque essere, consapevoli dei rischi insiti nel mestiere. Lavorare in psichiatria non è come lavorare in pediatria. I neonati non ti aggrediscono al massimo ti passano la varicella. I delinquenti non si fanno tutti arrestare pacificamente.
O forse è solo una questione di numeri.
Chi si ricorda dove e quando fu che due artificieri morirono e altri tre furono feriti gravemente nello scoppio di una bomba d’aereo americana da 250 libbre? Troppo pochi per fare tenerezza? Qualcuno chiamò gli artificieri eroi? Tra l’altro il loro motto dice che si sbaglia una volta sola… Più consapevoli di così.
C’è troppo, esagerato bisogno di eroi, quasi ci piacesse dover vivere situazioni eccezionali, mentre nella normalità questi eroi li prendiamo a cazzotti in pronto soccorso o sul treno.
Lavorare al servizio della collettività è straordinariamente gratificante se lo si può fare nelle condizioni più appropriate per sviluppare il meglio della professione, è questo che dobbiamo pretendere da chi ci governa ai vari livelli, per noi e per chi ci garantisce servizi particolarmente delicati. Non abbiamo bisogno di adorare eroi ma di essere riconoscenti a chi nell’ordinario quotidiano è messo nelle condizioni di dare il meglio di sé stesso.