In questo momento ci troviamo di fronte ad una vera e propria guerra, la prima del terzo millennio, con caratteristiche del tutto diverse rispetto ai precedenti conflitti convenzionali: rischiamo il collasso sanitario oltre a quello socio-economico. Ma si tratta pur sempre di una guerra, da combattere però con armi differenti da quelle tradizionali e con unità d’intenti.
Il Covid-19 ha messo in evidenza la difficoltà della classe dirigente italiana e degli altri Paesi dell’Unione europea a saper guardare oltre il contingente e al di là dei propri confini. E l’emergenza coronavirus viene a sovrapporsi a quella migratoria, ai preoccupanti cambiamenti climatici, alle ormai croniche crisi economiche, con la disoccupazione giovanile in primo piano, nonché alla degenerazione della democrazia rappresentativa ed al costante pericolo rappresentato dal terrorismo internazionale.
Non c’è più tempo per attendere e tantomeno per pensare a se stessi con illusorie soluzioni populiste e sovraniste o nazionaliste che dir si voglia, semmai occorre rispolverare i contenuti della Resistenza – italiana ed europea –, condotta nel corso del secondo conflitto mondiale con un comune denominatore di valori declinati in chiave sovrannazionale. Vanno liberate energie e risorse sopite da troppo tempo per essere pronti, una volta superata l’emergenza, a riprendere ancora più spediti il cammino del progresso e dello sviluppo.
Nell’immediato, nei mesi prossimi e presumibilmente per diversi altri anni, con un gioco di squadra che coinvolga i Paesi dell’Ue, sostenuto da soggetti pubblici e privati, dovranno essere concordate diverse azioni concrete: gestione comune della crisi da coronavirus, protocolli e modalità d’intervento coordinati, così come approvvigionamento e distribuzione di materiali e strumentazioni fra gli stati, col divieto del boicottaggio delle merci delle singole nazioni da parte delle altre appartenenti all’UE, ricerca condivisa di un vaccino utile a debellare il Covid-19, sostegno all’economia, alle imprese e alle famiglie per difendere l’occupazione e sostenere la domanda.
Ursula Von del Leyen, presidente della Commissione europea, ha opportunamente dichiarato la massima flessibilità del patto di stabilità e l’apertura agli aiuti di Stato, non contemplati dalle attuali regole europee. Seppure in ritardo, le si è accostata la presidente della Bce Christine Lagarde, con l’annuncio del lancio di un quantitative easing da 750 mld di euro, rimediando così alla sua infelice dichiarazione che aveva escluso interventi sullo spread dei titoli italiani e innescato di conseguenza il crollo della nostra borsa, oltre a pericolosi sentimenti antieuropei in vasti settori dell’opinione pubblica. Forse anche per questo diversi leader europei, a partire da Angela Merkel, ora si dicono favorevoli all’emissione di eurobond, mentre Conte e Macron hanno invocato l’intervento del fondo salva Stati (Mes) e della stessa Bce.
Una cosa è certa: deve cadere il tabù della concorrenza, a vantaggio dei necessari aiuti senza di cui avverrà il collasso dell’intera economia del Vecchio continente. E l’unico federalismo possibile post-coronavirus sarà quello europeo: nell’Ue la politica sanitaria è attualmente di competenza nazionale e regionale e per fronteggiare pandemie quale quella in atto diviene necessario un centro di coordinamento in grado di gestirle, come avviene negli Usa, dove i governi dei vari stati hanno demandato molteplici competenze, inclusa quella sanitaria, allo stato federale. In definitiva, la diffusione del Covid-19 ci ha fatto comprendere che l’Ue in ordine sparso non è attrezzata per affrontare le crisi esistenziali che le si presentano. Dal canto suo l’Italia dovrebbe spingerla a scoprire un antivirus contro l’introversione intergovernativa, potenzialmente in grado di degenerare in forme populistiche e/o sovraniste, anacronistiche ed inutili per risolvere drammi epocali come quelli che stiamo vivendo sulla nostra pelle.
Quanto agli stati nazionali, hanno sempre preferito non assegnare poteri reali all’Ue su temi di tale portata e si limitano soltanto, quando conviene, a lamentare l’assenza europea in svariati settori per giustificare le loro lacune. Un’ipocrisia bell’e buona, dimostrata da un esempio d’attualità: l’Italia aveva chiesto alla Commissione europea di potersi dotare delle mascherine protettive e a sua volta la Commissione ha chiesto agli stati membri dell’Ue di attivarsi in tal senso. Ebbene, gli stati hanno fatto le orecchie da mercante non raccogliendo l’invito. Per sbloccare la situazione e modificare i provvedimenti statali la Commissione ha allora dovuto ricorrere agli strumenti consentiti dal mercato unico. Ha inoltre deciso di destinare congrui fondi europei alla ricerca per trovare un vaccino capace di sconfiggere il Covid-19.
Non c’è dubbio che l’Europa sia ad un bivio: o cambia o muore, per parafrasare le parole di Luigi Einaudi, primo presidente della repubblica italiana, che già oltre settant’anni fa sosteneva che o ci si unisce o si perisce tutti quanti assieme. Dopo il coronavirus l’Europa va rifondata con una politica comune, nel rispetto delle persone, che includa salute, welfare, sostegno alla ricerca, sostenibilità ambientale, gestione delle frontiere e delle scelte che vanno oltre i confini. Con la conferenza sul futuro dell’Europa, in calendario (salvo un possibile contrordine) a partire dal prossimo 9 maggio, giornata europea, si capirà se esiste davvero la volontà di avviare un vero processo costituente dell’Europa federale, sempre più necessario ed inderogabile.
Costantino Ruscigno, docente di diritto amministrativo e urbanistico al Politecnico di Lecco e Presidente della sezione di Lecco del Movimento federalista europeo
Guido Monti, giornalista d’ufficio stampa a Milano e responsabile del Comitato provinciale per l’Europa di Sondrio