Di nuovo l’orrore ha colpito il ghetto,
un male crudele che ne scaccia ogni altro.
La morte, demone folle, brandisce una gelida falce
che decapita intorno le sue vittime.
I cuori dei padri battono oggi di paura
e le madri nascondono il viso nel grembo.
La vipera del tifo strangola i bambini
e preleva le sue decime dal branco.
Oggi il mio sangue pulsa ancora,
ma i miei compagni mi muoiono accanto.
Piuttosto di vederli morire
vorrei io stessa trovare la morte.
Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere!
Non vogliamo vuoti nelle nostre file.
Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore.
Vogliamo fare qualcosa. E’ vietato morire!
- Eva Pickovà (dodici anni, uccisa ad Auschwitz nel 1943)
Quello della Shoah è un crimine immane fatto di infinite incredibili vicende, tessere di un disordinato ma organizzato mosaico messo in atto lucidamente da buona parte del genere umano in modo più o meno attivo.
La tragedia del campo di concentramento di Terezin, in cui la crudeltà era la stessa dei molti altri campi nazisti, ci ha lasciato testimonianze tangibili di quell’enorme sofferenza, qualcosa di cui la memoria possa appropriarsi per ricordare ciò che il dolore insopportabile vorrebbe rimuovere:
poesie e disegni di alcuni dei 15.000 bambini che vi furono internati e vi morirono di stenti o, se sopravvissuti a quell’orrore, sterminati ad Auschwitz. Di quei bambini solo un centinaio furono trovati vivi e liberati dalle truppe sovietiche l’8 maggio 1945.
Terezin, fortezza settecentesca al centro della Boemia voluta dall’Imperatore d’Austria Giuseppe II per 7.000 persone, fu modificata dai nazisti facendovi lavorare giorno e notte oltre 3000 deportati affinchè con baracche di legno e sul terreno melmoso la capienza aumentasse. In essa furono stipate fino a 54.000 persone contemporaneamente; delle 140.000 circa che vi furono internate ne sopravvisse soltanto una ogni dieci.
Quello che vi accadeva dentro non è né descrivibile né immaginabile; raccontare che bambini di 12 anni dovevano lavorare 14 ore al giorno al freddo, scalzi e malvestiti, mangiando segatura e trasportando casse di cartone con le ceneri dei loro compagni bruciati nei forni crematori ad un ritmo di 200 il giorno può essere solo un pallido accenno all’atmosfera che erano costretti a vivere, cui erano costretti a dare vita.
Nei campi nazisti, a Terezin, la vita non era bella, non poteva esserlo mai in nessun modo ed in nessun caso; tutti, adulti e bambini, vedevano e vivevano gli orrori; tutti sapevano perfettamente cosa li aspettava se non fossero morti sul posto di stenti, delle violenze, per le malattie o impiccati per i capricci di qualche gerarca: il trasferimento nei carri bestiame all’ultima destinazione, il trasferimento al campo di sterminio.
Gli ebrei non dovevano solo essere cancellati dal mondo e dalla storia, ma dovevano essere umiliati, spersonalizzati, torturati ed annullati in ogni loro aspetto.
Nonostante questo all’interno di Terezin, di nascosto dai loro aguzzini e col terrore di essere scoperti, gli adulti si organizzarono in modo che fosse possibile dare ai bambini il calore umano ed il senso della vita che in ogni istante gli veniva letteralmente e ferocemente strappato.
Quelle persone, quelle donne e quegli uomini, fecero da insegnanti ai bambini che così ci hanno lasciato testimonianze tangibili della loro esistenza e della loro tragedia; testimonianze e vite che la storia, troppo spesso, non ha il coraggio di guardare:
sono 66 poesie ed oltre 4000 disegni che di loro sono rimasti, custoditi oggi nel Museo Ebraico a Praga; quasi tutti i disegni sono firmati dai bambini che ne furono autori, in alcuni vi è anche la data di nascita e quella di deportazione a Terezin e quella di partenza dal campo.
La data di deportazione da Terezin è spesso l'ultima notizia che si ha del bambino.
Una macchia di sporco dentro sporche mura
e tutto intorno il filo spinato
30.000 ci dormono
e quando si sveglieranno
vedranno il mare
del loro sangue.
Sono stato bambino tre anni fa.
Allora sognavo altri mondi.
Ora non sono più un bambino,
ho visto gli incendi
e troppo presto sono diventato grande.
Ho conosciuto la paura,
le parole di sangue, i giorni assassinati:
dov’è il babau di un tempo?
Ma forse questo non è che un sogno
e io ritornerò laggiù con la mia infanzia
infanzia, fiore di roseto,
mormorante campana dei miei sogni,
come madre che culla il figlio
con l’amore traboccante
della sua maternità.
Infanzia miserabile catena
che ti lega al nemico e alla forca.
Miserabile infanzia, che dentro il
suo squallore
già distingue il bene e il male.
Laggiù dove l’infanzia dolcemente
riposa
nelle piccole aiuole di un parco,
laggiù, in quella casa, qualcosa si è
spezzato
quando su me è caduto il disprezzo:
laggiù, nei giardini o nei fiori
o sul seno materno, dove io sono nato
per piangere…
Alla luce di una candela m’addormento
forse per capire un giorno
che io ero una ben piccola cosa,
piccola come il coro dei 30.000,
come la loro vita che dorme
laggiù nei campi
che dorme e si sveglierà,
aprirà gli occhi
e per non vedere troppo si lascerà riprendere
dal sonno…
- Hanus Hachenburg
(nato il 12.7.1929 – ucciso ad Auschwitz il 18.12.1943)
Guido Bedarida
(da Notizie radicali, 26 gennaio 2007)