Il Museo di Santa Giulia, Brescia, ha presentato fino al 6 gennaio 2020 una mostra di Zehra Doğan. Quasi tre anni di carcere per una vignetta su Twitter. È questa la terribile realtà della Turchia odierna, se si è curdi, donne e per di più giornalisti.
Questa mostra rocambolesca racconta una vicenda di resistenza e prigionia.
Nel sud-est della Turchia, a Diyarbakir, sulle rive del fiume Tigri di mesopotanica memoria, può giungere oggi il messaggio della pittura europea tra Otto e Novecento e, in particolare, di Gustave Moreau, Odilon Redon e Pablo Picasso, attualizzandosi nelle opere di un’artista curda poco più che trentenne?
La risposta non può che essere positiva, se si considera che Zehra Doğan (Diyarbakir, 1989) si è diplomata in Arte e Design presso la locale Università Dicle e che “l’ascendenza della cultura francese è stata, e continua a essere, molto sentita, nelle scuole d’arte turche”, spiega la curatrice Elettra Stamboulis in occasione dell’inaugurazione della mostra “Avremo anche giorni migliori. Opere dalle carceri turche”.
Lo dimostrano le sessanta opere pittoriche e grafiche qui presentate dall’artista, realizzate su ogni tipo di supporto di recupero – tessile e cartaceo – e con materiali improvvisati nei 1.022 giorni di prigionia da lei vissuti in tre diverse carceri turche: Mardin, Diyarbakir e Tarsor. Il capo d’imputazione a suo carico, incitazione al terrorismo, nacque dal disegno postato su twitter in cui Doğan reinterpretava sarcasticamente una foto della conquista turca della città curda di Nusaybin. Ad aggravare la situazione concorse l’essere anche giornalista – suo, a esempio, l’impegno nel denunciare le persecuzioni delle donne Yazide del nord dell’Iraq – nonché l’aver cofondato nel 2010 l’agenzia di stampa JINHA, chiusa nel 2016.
La sofferenza scaturita dalle recluse – spiritualmente condivisa con molte altre donne accusate di reati politici – scatenò in lei l’urgenza drammatica di dar corpo ai suoi stati d’animo, spingendola ad attingere al grande incubatore d’immagini che è il sogno. Prova ne sono le aggrovigliate figure umane e animali cariche di rimandi allusivi, le visioni in continuo dinamismo metamorfico, la presenza del tema iconografico dell’occhio, tipico della cultura simbolico-surrealista europea ma anche leimotiv della tradizione orientale, con le sue valenze apotropaiche e amuletiche.
Ma l’aspetto più impressionante è la velocità del segno grafico, che non rivela ripensamenti e scorre leggero sopra e sotto il magma cromatico degli inquietanti miscugli – cenere di sigaretta, tè, sangue mestruale, curcuma, succo di rucola, buccia di melograno – creando una trama segnica raffinatissima e ricca di invenzioni. Doğan ha costruito i propri pennelli usando i capelli delle detenute e le piume d’uccello rinvenibili in carcere. La sua produzione artistica è stata omaggiata da nomi noti al grande pubblico quali Ai Weiwei o Banksy.
Oggi Zehra vive in Europa e guarda al futuro, pensando alla sua terra, il Kurdistan, così ricca di storia e sofferenza.
M.P.F.