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Marisa Cecchetti. “Nella quiete del tempo” di Olga Tokarczuk
19 Novembre 2019
 

Olga Tokarczuk

Nella quiete del tempo

Traduzione di R. Belletti

Nottetempo, 2013, pp. 307, € 16,50

 

Premio Nobel per la letteratura del 2018, la scrittrice polacca Olga Tokarczuk allora è stata scelta “per la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta il superamento dei confini come una forma di vita”. Di lei Nottetempo ha pubblicato Nella quiete del tempo (2013) e Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (2012), e per chi scrive è stata una purtroppo tardiva ma fortunata scoperta.

Nella quiete del tempo ci porta in un villaggio-isola, Prawiek, situato al centro dell’universo, compreso tra il corso dei fiumi Bianca a Nera, che si uniscono in un unico Fiume, aperto verso tutti i punti cardinali su ognuno dei quali vigila il confine un arcangelo. Gli abitanti vivono dentro uno spazio ben noto e limitato, comprendente il castello che domina tutto, il mulino che è il centro della vita, la collina dei Maggiolini e fitti boschi.

La storia inizia fin dal primo Novecento mostrando una comunità laboriosa, semplice, con personaggi autentici nelle loro strane caratteristiche, di fronte ai quali la Tokarczuk si pone senza ombra di giudizio, ma rendendoli con un linguaggio che sembra svuotato di peso, leggero e originale come quello dei sogni.

Le guerre del secolo scorso toccano anche Prawiek: quando ancora non si sa che cosa significhi la parola guerra si può ben pensare ad essa come “una baruffa tra paesani”, ed è opinione femminile che “se nascessero donne ci sarebbe la pace”, invece Michal il mugnaio marito di Genowefa, ne sperimenta la violenza e la durata sulla propria pelle. Sua figlia Misia conserva il ricordo del padre, conosciuto a sei anni, come una persona lacera e nel pianto

I titoli dei capitoli evocano le fiabe ma ci introducono a personaggi talora terrificanti come l’Uomo Cattivo, che si isola nel bosco, rifiuta gli umani, si ricopre di peli, ulula, e finisce per somigliare ad una scimmia; o ai limiti della ossessione, come il castellano Popielski che riceve in dono un gioco da tavolo a cui finisce per dedicare la vita, che gli offre una rilettura fantasiosa della creazione, nella sua ricerca affannosa di capire il ruolo di Dio nella vita degli uomini: “da dove viene tutto il male? E se Dio non fosse buono?” O surreali come l’Annegato che muore ubriaco e l’anima gli rimane accanto, poi sconcertata non sa su quale strada andare e non può più fare ritorno al cielo, credendo infine di essere ancora un corpo, con la capacità di spostarsi come il pensiero e di fare del male. Dai poteri superiori a quelli degli umani, di vedere oltre le apparenze, in stretto contatto con le forze del Creato è Spighetta, ed anche sua figlia Ruta, in comunione con gli elementi, che sa mettersi in contatto con le energie che vengono dal cuore della terra.

Ma i confini che la dovrebbero separare da tutto il resto del mondo non garantiscono la sicurezza a Prawiek, e gli arcangeli guardiani non possono evitare che la guerra arrivi e porti cattura ed esecuzione pubblica di Ebrei, distruzione su quella che risulta una linea di confine tra le posizioni dei Tedeschi occupanti e quelle dei Russi che avanzano. Sembra di assistere alla fine del mondo e qualcuno vede volteggiare le anime dei morti nell’aria prima di sparire. Genowefa, la dolcissima e saggia mugnaia, non regge a immagini di orrore che le feriscono l’anima e il corpo.

Nel gioco del castellano si legge di otto mondi che Dio ha creato, una serie di tentativi fallimentari che vedono l’uomo sempre più abbandonato da Dio. E anche Izydor, portatore di handicap ma con grande cuore e sensibilità e capacità di amore, cerca di capire Dio e il senso dell’universo e del tempo, fino ad ammettere che Lui non può essere altro che una figura materna, una Dia. Con Izydor la scrittrice raggiunge un picco di creatività e originalità, che non è solo fantasia ma cerca le basi solide della logica. La follia, del resto, fa parte della natura umana per cui, quasi con una forma di equilibrio naturale, “ogni famiglia deve avere una persona che prende su di sé frammenti di follia che abbiamo dentro”.

Nascite e morti si susseguono, alla fine della guerra torna la ricostruzione, si cercano nuove strategie per risollevarsi e campare, subentra il controllo di una politica fino ad allora sconosciuta, qualcuno lavora per il nuovo regime. Le nuove generazioni non hanno più la percezione del confine guardato dagli arcangeli e vanno a studiare ed a formarsi altrove.

Scompare in loro la percezione di quel paese – felice pur nelle difficoltà della vita – dove uomini, animali, alberi, fiori, vento, nubi, insetti, funghi, sole, pioggia, erano tutti espressione vitale di un’unica energia, tutti in comunione tra loro, a condividere anche il dolore.

La Tokarczuk scende dentro l’anima di ogni essere vivente con una sensibilità delicata: gli alberi, per esempio, secondo lei vivono e percepiscono la propria esistenza come un sogno, e quando un albero muore il suo sogno penetra in un’altra pianta. Anche gli animali sognano incessantemente, vivono nel presente, l’emozione degli animali è pura, nessun pensiero li turba. Il bosco stesso ha un’anima, accoglie i rifugiati durante la guerra, protegge i bambini.

Il senso del tempo che ci sottrae la vita è trasversale, e la trasformazione e la decadenza delle cose e il trapasso delle persone ne sono la testimonianza concreta. “per pensare bisogna inghiottire il tempo, interiorizzare il passato il presente e il futuro, nonché la loro continua trasformazione”.

Ma l’elemento primo responsabile del disfacimento e della fine è senza dubbio l’assenza di amore, conseguenza della modernità, della trasformazione delle strutture sociali e di uno nuovo benessere. Ne saranno vittime i più sensibili e puri. Il tempo dunque non è affatto quiete, e il titolo a questo punto svela l’ossimoro a prima vista nascosto.

Dei tempi lontani – che sembrano un’Arcadia felix – porta con sé un ricordo Adelka, la nipote di Genowefa, che tornata a Prawiek dall’Ovest, trova vuoto e abbandono, suo padre solo, inselvatichito e sull’orlo della follia. Andandosene prende soltanto il macina caffè della nonna, quello che lei girava e girava fin da ragazza seduta fuori della porta di casa macinando i suoi sogni insieme ai chicchi di caffè.

 

Marisa Cecchetti


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