La storia della guerra, ci insegnano, la scrivono i vincitori. Sui libri è facile riconoscere i cattivi dai buoni e identificarsi con questi ultimi, arrivare persino a considerarli eroi. Almeno finché siamo molto giovani. Poi scatta una nuova consapevolezza e si impara a leggere tra le righe, nel non detto, nelle censure, negli spazi scomodi, nelle piaghe e nelle pieghe della memoria, nelle storie ‘altre’, e si diventa coscienti che tutto ciò che è polarizzato non è mai davvero lo specchio della realtà. Viviamo in un mondo a colori, non in bianco e nero e la realtà, di sfumature, ne ha infinite. Ci vuole grande onestà intellettuale per leggere libri sui partigiani e poi leggere delle foibe e va riconosciuto che ancora oggi non è facile parlare di quel periodo storico e dei suoi protagonisti senza essere criticati dagli opposti schieramenti politici. Leggere, documentare e raccontare per un giornalista non significa tifare per una parte o per l’altra. Significa, semmai, restituire la complessità di una situazione dove sì, spesso c’è chi attacca e chi contrattacca per difendersi, ma di fatto tra due eserciti, tra esercito e i ribelli, tra milizie, ci si confronta con lo strumento della violenza e il risultato è di vittime e feriti tra i soldati, ma soprattutto vittime, feriti, sfollati e profughi tra i civili. I ‘vincitori’ delle guerre scrivono la storia, ma oggi, grazie alla diffusione su larga scala dei social media, chi è coinvolto in un conflitto racconta con i suoi stessi strumenti la sua versione, fa, spesso in modo spaventosamente violento, la sua propaganda e quando non ci sono giornalisti liberi a testimoniare e mediare, la verità si fa sempre più pallida. Tra versioni urlanti, di loro, dei vinti e delle vittime, chi parla?
A volte sono i superstiti stessi che, allontanati dal contesto dove sono stati perseguitati e hanno subito violenze, diventano memoria vivente e raccontano. Altre volte si riconosce alle vittime, sempre tardivamente, un patimento, una sofferenza che suscita indignazione, commuove e solleva interrogativi. ‘Dove eravamo?’, ‘Come è stato possibile?’.
La guerra in Siria non è ancora finita e dopo il tredicesimo veto consecutivo in sede Onu, che mirava a una risoluzione di tipo umanitario per i civili di Idlib, continuano a cadere vittime. La disfatta delle forze di opposizione siriane ha contribuito alla polarizzazione del racconto, per cui per anni si è parlato solo del contrasto tra forze lealiste e terroristi del Daesh/Isis, consegnando all’oblio tutta quella parte di popolo che si opponeva all’uno e all’altro e che voleva solo una Siria libera, democratica, pluralista e laica. Intanto non si fermano gli arresti arbitrari tra coloro che sono stati rimpatriati forzatamente e restano in carcere migliaia di oppositori politici sottoposti a torture. Il tutto coperto dalla narrazione propagandistica del regime che canta la sua vittoria e tenta impunemente di negare e nascondere i suoi crimini. In questo le forze governative sono aiutate dai cosiddetti “dicta-tour”, viaggi di delegazioni internazionali che vanno in Siria a porgere il microfono al regime per contribuire alla sua riabilitazione sul piano internazionale e a fare da apripista per i fruttuosi appalti legati alla ricostruzione. Per loro le vittime e la loro tragedia possono restare nascosti tra le macerie.
“L’inferno per l’Isis” e “Figlie di un Dio minore” sono due reportage di Amedeo Ricucci e Simone Bianchi che invece offrono un punto di vista diverso, scomodo, complicato, con cui nessuno vuole fare i conti. Sono stati girati tra il nord-est della Siria e il nord dell’Iraq e vedono protagonisti solo donne e bambini. Nel primo l’inviato della Rai entra nel famigerato campo di al Hol, in Siria, dove sotto il controllo delle milizie curde vivono oltre 70mila mogli, madri, sorelle e figlie di terroristi del Daesh, con i loro figli. Molte di loro sono straniere, ma ad eccezione di pochi Paesi come il Kosovo, nessuna nazione ha accettato di rimpatriare donne che verosimilmente hanno in qualche modo contribuito ai crimini, alle violenze, alle persecuzioni e alla distruzione commessi dai terroristi dell’autoproclamato califfato. Ai microfoni di Ricucci alcune piangono, invocano pietà, si dicono pentite, altre, invece, rivendicano la loro ideologia terrorista e minacciano chi non la pensa allo stesso modo. Ascoltarle è agghiacciante, è come se quel nero integrale che le ricopre dalla testa ai piedi sia penetrato persino nei loro cuori e nelle loro anime. Odiano e nutrono il loro odio di quella polvere e quella solitudine che le circonda.
È inquietante rendersi conto di come, nonostante l’evidenza dei loro comportamenti disumani, ai loro occhi i mariti, padri e figli sono da difendere. Viene da chiedersi che ne sarà di quei bambini che crescono con madri che hanno idee simili e che vivono in un contesto dove regna il nulla, dove la prospettiva di una vita diversa, fatta di vita, colori, speranza sembra impossibile. Nessuno ha una ricetta per gestire questa emergenza, ma non è lasciando queste persone nel limbo che il problema sparirà. Non bisogna poi dimenticare che tra queste donne ci sono anche le ‘spose bambine’ siriane e irachene costrette dalle famiglie a sposare un miliziano, o che sono state rapite, come è accaduto anche a centinaia di donne yazide strappate alla loro terra e alle loro vite con la violenza nel 2014, durante l’ennesimo genocidio del loro popolo. Queste donne, alcune erano ancora minorenni, sono diventate schiave sessuali dell’Isis, sono state vendute, comprate, trattate come merce e molte si trovano ancora una volta prigioniere ad al Hol, in questo campo fuori dal mondo. Anche di loro si parla nel primo reportage, ma è soprattutto il secondo documentario che dà voce a queste vittime. Della loro tragedia il mondo è venuto a conoscenza soprattutto grazie al coraggio e alla testimonianza drammatica di Nadia Murad, a cui è stato assegnato il premio Nobel per la Pace nel 2018, ma come spesso accade, ci si è presto dimenticati del loro calvario e della loro sofferenza ancora in atto. Molte tra le donne yazide che erano state rapite sono state liberate, ma sono state costrette, per diverse ragioni, ad abbandonare in Siria i loro figli, nati dalle violenze dei terroristi. Altre, come delle sepolte vive, sono ancora avvolte nei sudari neri in cui le costringono con la violenza le donne dell’Isis, che ad al Hol continuano con i loro comportamenti deliranti.
Nel campo di al Hol, dove il tasso di mortalità tra i bambini è molto alto, dove non mancano solo acqua potabile e farmaci, ma manca tutto ciò che può minimamente essere considerato umano, c’è un capitolo della storia in sospeso, un capitolo che nessuno vuole scrivere. I reportage di Ricucci provano a raccontarla questa storia, a sollevare il problema soprattutto di quei bambini, di quegli innocenti condannati per i crimini dei padri, che rischiano di diventare un nuovo bacino di fermento dell’odio e delle ideologie terroriste. Sono immagini e voci che arrivano come un pugno allo stomaco. Un pugno necessario per aprire gli occhi e chiedersi chi scriverà questo capitolo della storia e se davvero consegneremo alla futuro una pagina in cui sarà scritto che i figli nati dagli stupri e i figli di genitori con ideologie terroriste sono condannati a ereditare questa macchia che condizionerà le loro vite.
Asmae Dachan
(da Diario di Siria, 22 settembre 2019)