Quando iniziai a leggere Musica Jazz avevo poco più di vent’anni, venivo da forsennati ascolti rock che pian piano nel corso del tempo mi avevano spostato sempre più in prossimità della musica afro-americana. Ricordo che nei primi tempi la maggior parte degli album recensiti erano per me oggetti misteriosi sia nei nomi dei protagonisti sia nella musiche proposte.
La rivista era edita da Messaggerie Musicali, aveva un corpo di colore bianco con l’intestazione in nero e successivamente in rosso, le fotografie erano in bianco e nero e, aprendola, la prima rubrica si chiamava Lettere al Direttore.
Mi piaceva molto, c’erano lettere assolutamente geniali e altre che avevano come unica funzione il mettere in luce pareri e gusti fuori dal battuto, spesso non senza polemica. Naturalmente non mancavano palestrati di esibizionismo, e questo nonostante a monte ovviamente ci fosse un filtro.
Anch’io una volta ho scritto al direttore. È accaduto molti anni fa, e nella mia lettera raccontavo quello che avevo appena vissuto a Umbria Jazz. Ai Giardini del Frontone, metà anni ‘90, c’era il concerto di Michel Petrucciani e per tempo mi ero dotato del biglietto. Nonostante ciò, l’organizzazione non prevedeva posti numerati (sigh), cosicché era imperativo arrivare almeno un’ora prima dell’apertura per poter avere un posto abbastanza vicino al palco.
Una situazione disagevole, una evidente mancanza di rispetto verso il pubblico. Una organizzazione incredibilmente deficitaria per un festival che aveva già largamente un respiro internazionale. Naturalmente i ragazzi che il biglietto ancora non l’avevano erano una folla che via via andava crescendo con l’avvicinarsi dell’ora di inizio.
Dopo aver preso posto e giusto un attimo prima del concerto ecco che l’orda, dopo aver pagato il biglietto intero (!!), riesce finalmente ad entrare per sedersi sulla ghiaia a fianco delle poltroncine ed in mezzo ai corridoi di passaggio.
Altra mancanza di rispetto clamorosa verso il pubblico, al limite della truffa, sia verso lo spettatore con prenotazione sia verso l’altro, trattato veramente come un parco buoi, giusto per usare una definizione da Borsa Valori.
Allora prendo carta e penna e con pazienza scrivo senza enfasi e senza sarcasmo, descrivendo la situazione ed esprimendo il mio dissenso ed il mio sconcerto. Nella mia ingenuità credevo ancora che i festival prima di costituire un business, venissero organizzati da appassionati per altri appassionati, e che denunciando una situazione anomala si potesse poi provvedere al meglio per il futuro.
Che fesso! Non capire che si andavano a toccare interessi economici e di immagine, entrambi assolutamente da preservare. Che importava se raccontavo il vero, il punto non era affatto quello. Eppure allora, parliamo di almeno 25 anni fa, il festival era ancora autenticamente riservato ai jazzofili. Ancora non era iniziata quella pratica, purtroppo comune a tutti i grandi festival jazz sia in Europa che negli States, che progressivamente ha visto nel corso degli anni uno snaturamento del cartellone, una invasione di cantanti e nomi del pop/rock (alcuni veramente imbarazzanti da qualsiasi punto di vista li si osservi) frutto nel nostro caso delle pressioni dello sponsor politico che deve accontentare albergatori, ristoratori, commercianti e tutti coloro che da una sempre maggiore affluenza a Perugia traggono guadagni. In pratica, l’arte è stata messa al servizio del business e si è svenduta una gloriosa storia pluridecennale in nome del profitto. Non a caso, al termine di ogni festival l’organizzazione si premura di far sapere che i biglietti venduti sono di molto maggiori rispetto all’anno precedente e così il numero degli spettatori. Il tutto avviene con l’entusiastico appoggio dei media (probabilmente anche per incompetenza musicale) e l’imbarazzo dei magazine dedicati, che ovviamente non possono sputare nel piatto di una ricca pubblicità che occupa preziose pagine.
Umbria Jazz è diventato ormai un contenitore dove convivono musiche diverse, e, in tutto ciò, i concerti jazz sono concentrati per lo più in piccoli teatri, quasi fossero sopportati più che supportati. Il mio potrebbe sembrare lo sfogo di un “purista” (parola orrenda) che non vuole sentir ragioni al di fuori del canone jazzistico codificato.
Nulla di più sbagliato. Ci sono state edizioni in cui si invitavano straordinari artisti, bastino qui i nomi del Kronos Quartet, del Turtle Island Quartet, Maria Bethana, Gilberto Gil, Hilliard Ensemble o del David Parson’s Dance Company. Poi si deve essere rotto qualcosa nel delicato meccanismo programmatico perché si è passati da proposte stimolanti a prescindere dal genere a nomi da Festival di Sanremo.
Tornando alla mia lettera al direttore, naturalmente nelle recensioni di quella edizione nessun giornalista, sia nei quotidiani che nelle riviste di settore, si è mai sognato di raccontare la vicenda che io e qualche migliaio di persone avevamo vissuto.
E, sempre naturalmente, la mia lettera non venne mai pubblicata.
Roberto Dell’Ava