Era un Toro aggressivo e poetico. Il Torino di Gigi Radice, che ci la lasciato, lui milanese di Cesano Maderno il giorno di Sant'Ambrogio del 2018, era una macchina, no, anzi... un organismo perfetto. Una squadra compatta negli intenti e formidabile negli esiti. Senza punti deboli, ogni uomo era quello giusto al posto giusto: operai e artisti, inventori, facitori o finalizzatori. Senso pratico, feeling con il gioco e creatività. Un portiere-giaguaro, davanti Puliciclone e Ciccio Graziani, i gemelli del gol, lo spauracchio di ogni difesa, a buttar dentro i suggerimenti che provenivano da quella devastante ala-mezzala di dribbling ubriacante e fantasia che era Claudio Sala o dagli altri centrocampisti, fra genio e regolatezza, Zaccarelli e Pecci. Senza contare tutti gli altri: Nello Santin, Roberto Salvadori, Patrizio Sala, Roberto Mozzini, Vittorio Caporale...
E Gigi Radice era l'artefice di quella squadra che pressava secondo i dettami olandesi ed evoluiva secondo il genio individuale (tecnico-tattico) italico. L'anno era il 1976, ventisette anni dopo la tragedia di Superga che aveva seppellito, pur consegnandolo alla leggenda, il Grande Torino e nove anni dopo l'altrettanto drammatica scomparsa di Gigi Meroni, la farfalla granata. Per il popolo del Toro era tornato il tempo della gioia. Fu uno scudetto epocale.
Gigi Radice era diventato allenatore dopo il ritiro da giocatore avvenuto a soli trent'anni, causa un gravissimo infortunio da cui mai si era ripreso pienamente. Nel suo curriculum vitae da terzino vi erano stati Milan, Triestina, Padova, ancora Milan, con tre scudetti nel 1957 (1 presenza), 1959 (2 presenze), 1962 (28 presenze e 1 gol) e la Coppa dei Campioni 1963 (anche se non avrebbe disputato la finale), oltre a 5 presenze in azzurro, di cui 2 agli sventurati Mondiali cileni (saltò soltanto la sciagurata e violenta gara contro i padroni di casa, la tristemente famosa Battaglia di Santiago).
Se Radice fu un valentissimo giocatore, da allenatore fu addirittura grandissimo: nel suo itinerario poté sedere sulle panchine di Monza (2 promozioni dalla serie C alla B), Treviso, Cesena (promozione dalla B alla A, la prima per i romagnoli), Fiorentina, Cagliari, Bologna (settimo posto in classifica, recuperando i 5 punti di penalizzazione inflitti alla compagine felsinea), Milan, Bari, Inter, Roma, Genoa, alcune delle quali più volte in diversi periodi. Ma soprattutto lui era il Toro e il mitico tricolore 1976. Un'impresa indimenticabile.
Un allenatore di forte personalità, ma gentiluomo, lungimirante, razionale e intuitivo. Un genio della panchina, possiamo dirlo senza tema.
Gigi Radice, sottratto al mondo da una lunga e pesante malattia, è ora nei celesti prati a calciare il pallone e a spiegare schemi per tanti altri invincibili.
Alberto Figliolia