L'appuntamento con Siro è alla stazione. Come sempre di domenica mattina. Nel suo tempo libero da impegni di lavoro e familiari, ridotto a un paio d’ore. Oggi poi è ferragosto.
Da quanto tempo andiamo avanti così? Fino a quando?
Il vagone è tutto mio. La stazioncina d’arrivo appare come un rifugio per cani randagi.
Siro non è ancora arrivato.
Misuro il piazzale lastricato di sampietrini in lungo e in largo, poi siedo su una panca di marmo fissando il vuoto. E le rotaie perversamente lucenti. Siro potrebbe anche non venire, non sarebbe la prima volta. E non cercherebbe scuse.
Invece eccolo che arriva. Pantaloni chiari e camicia blu, non si è rasato.
– Scusa, non mi partiva la macchina – dice, – un amico mi ha prestato la sua.
Mi bacia e mi stringe, svanisce ogni timore.
Siro prende la via del bosco e nei pressi di una radura accosta e scendiamo, e c'inoltriamo tenendoci per mano nel folto del castagneto.
Restiamo abbracciati a lungo, nel silenzio appena interrotto dal fruscio delle foglie e dal canto degli uccelli. È il momento solenne che attendo da sempre. Siro è il mio destino e sta per compiersi.
Prendo dalla borsa il pareo turchese e blu, con i pesci che guizzano fra i rami di corallo. Lo stendo a terra e aspetto.
Le sue mani dolcemente mi spingono giù, poi siede e resta vigile.
Io non posso più aspettare.
Infilo la mano sotto la sua camicia. Tremo al contatto della sua pelle tiepida e vibrante. Una sensazione di perfetta pace mi avvolge e non succede più nulla, tutto è già accaduto.
Noi due ci stiamo inseguendo e sfuggendo da tanti anni in labirinti ostili che sembrano da noi stessi preparati. Forse ora ne usciamo.
Per la prima volta ci troviamo così, stesi accanto in un luogo solitario. Esasperati da un desiderio d'amore troppo a lungo e insensatamente negato.
Rumore di passi e scricchiolare di foglie. Due fraticelli s'inerpicano per il viottolo diretti al monastero dei Cappuccini che si trova poco più in alto, parlando o forse pregando con voce monotona.
È spezzato l’incanto. Siro si alza, mi volta le spalle, si accende una sigaretta.
Non faremo l'amore nemmeno stavolta.
Ripiego con cura il pareo, sarà per un'altra occasione. Siro evita il mio sguardo.
Quando mi saluta alla stazione, leggo promesse nei suoi occhi.
Ho sempre letto promesse, nei suoi occhi, mai mantenute. Siro è un mistero per me, ed è tutta la mia vita.
Mi sento leggera. Come un palloncino sfuggito dalle mani di un bambino, che sale verso il cielo. Dove scoppierà.
È mezzogiorno. Scendo dal treno vuoto e m'incammino verso casa, che troverò vuota.
Mi sto separando da mio marito, ma non è facile. Per sciogliere certi nodi ci vorrebbe forse un colpo d’accetta. Matrimoni combinati che hanno la tenuta di catene al piede di carcerati speciali. Per il momento lui si è trasferito altrove in attesa della definitiva rottura.
La palazzina sembra evacuata. Serrande abbassate, nemmeno un panno steso. I fiori stanno morendo di sete sui balconi. È tempo di ferie.
Penso una volta a casa di fare una doccia, bere qualcosa di fresco e sdraiarmi, sono stanchissima. Invece appena entrata le mie gambe mi riportano fuori.
È canicola feroce. Nelle strade deserte l’asfalto luccica viscoso e fluido, tutti i negozi chiusi compresi i bar.
Che desolazione.
Mi dirigo chissà perché verso la casa di mia madre. A quest'ora riposa e non vorrei disturbarla, e per cosa, poi?
Busso alla sua porta e sento il cigolare del letto quando si alza, i suoi passi che si avvicinano. Apre e resta a guardarmi stupita e un po’ spaventata.
Sono stupita e spaventata anch'io. Perché mi trovo qui? Mai confidenza tra noi, solo divergenze.
Mia madre dice che lei ha già mangiato, ma se voglio mi prepara qualcosa. No, non mi occorre nulla, solo vorrei riposare con lei, nel suo letto.
Assurdo. È la prima volta che chiedo asilo a mia madre. Lei troppo frastornata per fare domande beve un bicchiere d'acqua e torna a letto, e io mi distendo al suo fianco nel calore soffocante del sottotetto.
Supina e immobile, aspetto che il sonno arrivi.
Da quanto tempo non dormo? Da quando Siro mi ha dato appuntamento per oggi. Era giovedì o venerdì? e oggi è domenica. E non ricordo di avere mangiato, spero almeno di avere bevuto.
Da quando Siro mi ha detto “Vieni, devo fare l’amore con te altrimenti mi ammalo” non ho avuto più bisogno di niente. Mi sono preparata per andare da lui come una sposa all'altare, con la sottana di pizzo e il petto in fiamme. Per un nulla di fatto.
Il sonno non arriva. Sul soffitto fluttua il pareo che sarà il nostro lenzuolo nuziale. Rivivo attimo per attimo quello che è stato e che sarà, perché non può non essere, e mi sento elettrizzata. Quando e come non so.
Imboccammo vie diverse pur desiderando con tutta l’anima di camminare affiancati. Perché? Un errore che si perpetua. Ma c'è dell'altro, che stento a mettere a fuoco. Finché la verità non trancia ogni velo e assisto alla pena capitale di ogni mia aspirazione.
Siro non esiste, ed io sono uno spettro proiettato dalla mia stessa invenzione.
Mi scoppia la testa. La ragione si sgrana e cerco inutilmente di parare i pezzi dell’ingranaggio che mi si avventano addosso fra mille scintille.
Mia madre russa.
Scatto in piedi, esco dalla stanza e inciampo nello spigolo del tavolo della cucina – che ci fa qui in mezzo? – e scappo fuori inseguita dalla voce di mia madre che chiede “Ma dove vai?” e volando per le scale sono in strada.
Ho i piedi in fiamme, stretti nei sandali da stamattina. Passo davanti a una casa dove c'è un giardino e una bambina che gioca con la sua bambola e la sgrida perché si è sporcata il vestito.
– Posso usare il bagno? – le chiedo, e lei mi risponde che i suoi genitori dormono ma io posso entrare, però devo fare piano.
Nel bagno c’è una scarpiera e dentro trovo un paio di mocassini comodi che metto ai piedi e al loro posto lascio le mie scarpe.
– Ciao e grazie, – dico alla bambina che sta lavando la bambola nuda in una bacinella gialla, e riprendo a camminare.
Devo sistemare questioni urgenti.
Attraverso tutto il paese. Chissà che ore sono. Nessun albero, niente ombra. Grondo sudore e non ho niente per asciugarmi. I fazzoletti sono nella borsa, ma la borsa dov'è? Dentro ci sono le chiavi di casa, i documenti, i soldi del mese, sigarette e accendino.
Sento prepotente la voglia di fumare.
Chiederei una sigaretta se ci fosse qualcuno in giro, ma in giro non c'è nessuno. Solo quella donna, che si ferma e resta a guardarmi. Che avrà da guardare?
Altri cento metri e sono arrivata. La chiesa è bella, tutta nuova, con la doppia scalinata e il giardino fiorito, ma il portone è chiuso.
Vado sul retro e provo a suonare alla canonica, nessuna risposta. Busso e ribusso al portale.
Alcune persone passano e mi guardano incuriosite. Perché non si fanno gli affari loro? E perché il parroco non si cura dei suoi fedeli, perché non mi apre?
Continuo a bussare e a suonare il campanello e finalmente una finestra si spalanca in alto.
– Chi sei, che vuoi? – chiede il don.
– Sono io, una pecorella smarrita.
– Non hai letto l’orario sul portone? Si apre fra un’ora. Torna per la funzione…
– Non se ne parla – e gli volto le spalle.
Ho bisogno di fumare. La borsa l'avrò lasciata a casa tirandomi dietro la porta, vado a prenderla e cerco un tabaccaio o un distributore automatico.
Ma anziché andare verso casa prendo la direzione opposta. La campagna crepita al calore infernale.
Devo fare due conti con la ciarlatana di quartiere che opera in nome di Rita da Cascia.
Mia madre è sua affezionata cliente. Ogni mese le consegna metà della sua pensione di reversibilità. Senza farsi vedere perché è vergogna. Ma la gente parla.
Viottolo a sinistra, recinzione, cancello chiuso, cani alla catena.
– Lilia – chiamo, – vieni fuori!
I cani ringhiano, la padrona di casa non s’affaccia.
Sono stanca morta. Me ne vado. Ma in quel momento Lilia esce e tutta gentile mi chiede:
– Che ti serve, bella?
– Apri, che te lo dico.
– Vengo. Non aver paura dei cani, sono legati.
– Non sono i cani a farmi paura.
– Vieni, ne parliamo dentro.
La casa è un incubo. Un'accozzaglia di simboli di segno contrario. È così che Lilia confonde i poveri creduloni. La sporcizia impera.
– Vuoi una limonata? Siedi, sei pallida. Vuoi che chiami tua madre… o tuo marito?
– Non ci provare. È proprio per questo che sono venuta. Guai a te se mia madre rimetterà piede in questo porcile, guai a te se qua dentro sarà fatto ancora il mio nome da chicchessia, se spaccerai ancora polverine da sciogliere nel mio latte.
– Oh, bada a quello che dici...
– Sentimi bene: qua dentro c'è un fetore nauseante, non credo che piacerà a quelli dell’ufficio d’igiene.
Le butto cento lire sul tavolo per il disturbo e mi volto per uscire, inseguita da Lilia che sbraita infuriata. Passo fra i cani che abbaiano ma non mordono e sono in strada.
Il sole tramonta. Siedo su una panchina, sotto un albero di Giuda. Muoio dal sonno ma non riesco a chiudere gli occhi. Pancia vuota e testa piena. E un senso di perdita irrimediabile pensando a Siro. Sconfortante.
Vorrei essere presa fra le braccia da qualcuno di cui potermi fidare. E piangere sulla sua spalla. Ho provato a dormire accanto a mia madre e se lei mi avesse cullato forse ci sarei riuscita e non mi troverei così spersa. Ma non sono più una bambina e dovrei essere io a cullare mia madre che si sta facendo piccola come una bambina.
Quand'è che s'inverte la ruota della vita?
Quand'è che si diventa madre della propria madre?
Vado verso casa, incespicando per via dei mocassini che mi vanno larghi e del sudore che colando mi appanna la vista.
– Scusi, ha una sigaretta? – chiedo a un passante, l’unico che abbia incrociato. – Mi fa accendere per favore?
Mai fatta prima una simile richiesta. La sigaretta mi disgusta al primo tiro. Forse è drogata: MAI PRENDERE NIENTE DAGLI SCONOSCIUTI.
Portone d’ingresso chiuso, non so come entrare. Poi penso di citofonare a nonna che abita nell'appartamento dirimpetto al mio e ha il doppione di tutte le mie chiavi.
Nonna apre e mi aspetta sulla porta. – Dove sei stata? – mi chiede.
– In giro. Mi dai per favore le chiavi di casa?
– E le tue?
– Sono rimaste dentro, capita.
– Prima vieni a mangiare qualcosa, – m’invita nonna con quella sua maniera accattivante, ma altrettanto gentilmente io rifiuto e m’infilo dentro casa.
La borsa è all'ingresso. E il pacchetto delle sigarette è vuoto.
Ridiscendo per andare dal tabaccaio. Trovo aperto quello della stazione. Chiedo tre pacchetti delle mie sigarette e un paio di accendini. “Di che colore?” Uno bianco e uno nero. Grazie.
Accendo la sigaretta e mi riprende la nausea.
IL FUMO UCCIDE. LO STATO HA LICENZA DI UCCIDERE.
Voglio andare a dormire.
A casa trovo ad aspettarmi sul pianerottolo nonna e mia madre. Che io ricordi, da sempre vedove. Che ci fa in giro mia madre a quest’ora?
– Come ti senti? – lei mi chiede, con un filino di voce.
– Bene, perché?
– Oggi eri strana.
– Ah sì? tranquilla, sto bene – intanto armeggio per entrare in casa.
– Tua madre arriva e tu… – miagola nonna, l’angelo del focolare anche quando è spento e disertato.
– Vieni a mangiare, c’è il brodo.
Battaglia persa, non ho le forze per oppormi.
Alla prima cucchiaiata devo correre in bagno. Che ci ha messo nonna nel brodo? Anche lei come mia madre è affezionata cliente di Lilia. Trovo sparse le sue polverine negli angoli più nascosti, piazzate in mia assenza. Nonna non l’ha mai negato.
– Adesso vado – ed esco, inseguita dai sospiri di mia madre e i rimproveri di nonna, ma non attacca.
A casa mi chiudo dentro col chiavistello. Mi stendo sul divano e torno con la mente a stamattina, a oggi, a stasera. UN FERRAGOSTO DA TREGENDA.
Adesso però devo dormire. Prendo un paio di quelle pasticche per l'insonnia e me ne vado a letto. Dove stanno? Saranno pure scadute, me le portò mio marito quando, risultate vane minacce ingiurie e ALTRO nei miei confronti, decise di prendersi cura di me ricorrendo ai soporiferi, proprio quando non volevo più saperne di lui.
Non importa. Ora mi stendo e mi rilasso, il sonno verrà.
Troppo caldo. Esco nel silenzio della notte e trovo una rosa sul mio balcone.
Piantai uno zeppo, tempo fa, e stanotte è sbocciata una rosa. NERA.
Quante stelle, un tappeto. E mentre abbraccio il cielo con lo sguardo, una scia luminosa viene serpeggiando a morirmi addosso. E' la notte di san Lorenzo.
Chiudo gli occhi per esprimere un desiderio e quando li riapro vedo – dalla parte della ferrovia – l'angelo di luce con la spada sguainata alto sopra di me: a proteggermi o a minacciarmi?
Voci alterate dalla strada qui a lato. Mi sono familiari. Un duetto animatissimo e ripetitivo. Niente, non riescono a spiegarsi e continuano a urlare.
DISTURBO ALLA QUIETE PUBBLICA. Qualcuno reclamerà se continuano.
Due occhi arrossati mi stanno fissando dalla casa di fronte. Rientro e tiro completamente giù la serranda.
Non mi reggo più in piedi.
Silenzio in tutto il palazzo.
Troppo silenzio. COME SE FOSSERO TUTTI MORTI. A parte quei due che continuano a duettare sempre più isterici. E nessuno che intervenga per farli zittire. Sembrano – ma guarda che strano – moglie e marito quando si danno addosso come belve.
Poi un pensiero lampo: e se venissi aggredita in piena notte dai malviventi che in questo mese lavorano a cottimo?
Domani vado in questura e sporgo denuncia. Contro chi? Contro ignoti.
Sudo e sono gelata, devo fare una doccia.
No, meglio evitare rumori, non si può mai sapere. Che mondo!
Ho pure il telefono fuori uso, forse ho dimenticato di pagare la bolletta. Domani sistemo anche il telefono.
Un faro di luce scandaglia la stanza. Fuori, un rumore d’inferno.
Qui le cose si mettono male, meglio che avvisi qualcuno.
Vado da nonna a telefonare. Anch’io ho il doppione delle sue chiavi.
Nonna dorme.
A chi telefono? Alla centrale di polizia. E che gli racconto? Tutte le stranezze che ho notato. E se qualcuno mi sta tenendo d'occhio? C'era uno che mi spiava, nel palazzo di fronte. Con i mezzi di oggi QUELLI guardano pure attraverso le pareti. Magari ti leggono pure nel pensiero.
Un'idea: chiamo l’ambulanza e mi faccio portare alla polizia. Senza correre rischi.
Intanto allerto la stampa. Chiamo Il Messaggero, il numero lo trovo sull'elenco.
– Sì, pronto?
– Pronto. Mi trovo in una situazione di pericolo. Adesso chiamo l'ambulanza e vado alla polizia.
– Chi parla?
Nome, cognome, indirizzo e numero telefonico: il mio, disattivato.
– È sola in casa?
– Sono in casa di nonna, prima ero sola.
– Di che situazione parla?
– Non so esattamente, ma è grave. Si capisce quando una cosa è grave, no?
– Perché vuole chiamare l'ambulanza?
– Gliel’ho detto, per andare alla polizia.
– Perché non usa invece il telefono?
– E che sto facendo, secondo lei?
– Signora, più tardi la richiamo, va bene?
– Più tardi? Scusi, ma lei è o non è una giornalista?
– Sono una giornalista.
– Allora faccia il suo lavoro! Le sto anticipando una notizia che scoppierà come una bomba e lei dice che mi richiama dopo? Ma lei vuole il morto?
– Signora, al numero che mi ha dato non risponde nessuno, come mai?
– Le ho detto o no, che mi trovo da nonna? Il mio telefono è staccato perciò chiamo da qui, ma questo che cambia?
– Più tardi la richiamo senz'altro, buongiorno, – e riattacca.
Nonna mi sta alle spalle muta e sbiancata.
– Torna a letto, nonna, adesso me ne vado. – E chiamo l'ambulanza. – Pronto, centodiciotto?”
– Chi parla?
Nome, cognome e indirizzo, senza numero telefonico che tanto lo vedono da soli.
– Che succede?
– Una donna sta male.
– Chi?
– Io.
– È sola?
– Più o meno.
– Arriviamo.
Nonna sembra un fantasma nella camicia bianca lunga fino ai piedi abbottonata fino al collo. Dicono che i vecchi hanno sempre freddo e non dormono mai. Fossi anch’io invecchiata di botto?
– Va tutto bene, nonna, non preoccuparti, – ed esco perché penso di farmi trovare pronta sulla strada quando arrivano.
È giorno fatto e il rumore d’inferno proviene dal camion della raccolta rifiuti.
Guarda chi c'è, Franchino. Prima faceva lo spazzino e adesso porta il camion. Si chiama Franco ma tutti lo chiamano Franchino perché è piccolo e gentile. Mi saluta e tace imbarazzato dopo avermi guardato da vicino. Devo avere un aspetto orribile.
Franchino finisce di vuotare i secchioni, sale sul camion ma non si decide a partire.
Io aspetto con la pazienza dei pazienti l’arrivo dell’ambulanza. La Sanità non funziona per tutto l’anno, figuriamoci nel mese di agosto.
Franchino non sa che fare, poi prende coraggio e chiede se può essermi utile.
– Aspetto l’ambulanza, ma non per andare in ospedale…
– Vuoi che ti accompagni al Pronto Soccorso?
Buona idea. Arrivando col suo mezzo darò meno nell’occhio. Poi da lì alla Polizia sono due passi.
– Grazie, Franchino, sei una brava persona. Come sta la tua famiglia? I tuoi figli studiano? Menomale che hai preso questo lavoro sicuro…
– Veramente è a tempo determinato, ma finché dura, dura. Vieni, sali. Non si potrebbe, per motivi di sicurezza, ma a quest’ora chi ci fa caso? In cinque minuti arriviamo. – Salgo e subito mi addormento.
Al Pronto Soccorso due braccia mi afferrano e mi trovo su una carrozzina spinta dentro da un portantino.
Luce abbacinante, domande a cui non rispondo. Non era qui che volevo venire, io devo andare alla polizia. E adesso?
– Ce la fai a salire sul lettino? – Ce la faccio, e appena distesa mi lasciano sola.
Chiudo gli occhi e svanisco.
– Su, sveglia. – Uno in camice bianco mi tasta il polso guardandomi fisso, poi chiede: – Beh, che ti capita?
– Senta, non posso raccontarle tutto per filo e per segno, lei sta qui a fare il suo lavoro e io non voglio rubarle tempo, – faccio per scendere ma quello mi tiene giù.
– Sta calma e racconta.
– Da dove comincio? Ne sono successe tante da ieri mattina, ieri era domenica, giusto?
– Domenica di Ferragosto, poi?
– Prima prendo il treno e vado all'appuntamento piena di speranza ma passano quei due fraticelli e tutto va a monte, poi vado dal don e lui non mi apre, poi vado da Lilia... ma vede, tutto questo a lei non può interessare, e non è questo che mi preoccupa, ma quello che viene dopo... pensi che nemmeno la giornalista ha compreso la gravità della situazione...
– Che giornalista?
– Una del Messaggero, il primo che m’è venuto in mente, non sono una lettrice affezionata…
– Chi ha contattato la giornalista?
– Io. L’ho chiamata al telefono e le ho detto del pericolo, ma secondo me non mi ha creduto…. e forse non era nemmeno una giornalista…
– Ah!
Mi trovo con un ago infilato nel braccio attaccato a una flebo. E uno in camice verde che mi guarda sornione e mi annusa le ascelle.
Sono a disagio. Tanto sudore e mai una doccia.
E questo che mi slaccia la vestaglia – ma guarda, SONO USCITA IN VESTAGLIA! – e mi palpa il seno. E sorride sotto i baffi.
Perché non mi sono lavata?
Intanto questo qui continua a fare lo scostumato, io mi agito e lui mi tiene bloccata sul lettino, mi viene da urlare e lui con una mano mi tappa la bocca e con l'altra m'infila una siringa nel fianco e len-ta-men-te m’allontano, sì, me ne vado a dormire.
Maria Lanciotti