Mi piacerebbe che i miei nipoti chiedessero qualche volta dei loro bisnonni e trisavoli. Forse un giorno lo faranno, in previsione ripesco e accantono sprazzi di ricordi e scaglie lucenti di un’immaginazione che spesso ha riempito vuoti fatti di lontananza e di assenze. Un tentativo di recupero che in mancanza di testimoni viventi può solo affidarsi a quanto di essi resta vivo nella memoria personale.
Ricordo il mio nonno paterno, Giacomo, alto e magro, con i baffoni a manubrio e il cappello a falde larghe. Lo vedo scendere una gradinata di selce appoggiandosi a un bastone, e sullo sfondo un portone chiuso. Null’altro.
L’altro mio nonno, anche lui con i baffi e il cappello, lo sguardo diretto, lo conosco solo per la sua foto al cimitero, un’immagine sfocata in cui spicca la camicia bianca sotto la giacca scura. Nonno Agostino morì dopo qualche mese dalla mia nascita, la mia famiglia aveva lasciato il paese da alcuni anni ma fui portata in tempo da lui perché potesse conoscermi e benedire com’era d’uso.
Tutte e due le mie nonne si chiamavano Maria, da qui il mio nome. Della nonna paterna ricordo i capelli di puro argento e la pelle chiara del viso segnata dal vaiolo, la lunga collana di corallo rosso e grandi cerchi d’oro alle orecchie, l’espressione tenera. Poi la sua figura svanisce assieme a quella di nonno Giacomo.
Molto presente invece l’altra mia nonna, con cui ho passato tanto tempo quando andavo a trovarla al paese o quando veniva lei a passare qualche giorno da noi e dormiva con me nella mia stanzetta. Una donna energica e rocciosa che sapeva essere affettuosa ma senza mai permettere troppa confidenza. Il suo carattere forte risalta anche dalla foto che si fece scattare per quando fosse servita, e forse non ne aveva altre. Nonna Maria visse fino al 1960 e fece in tempo a vedere tanti cambiamenti con comprensibile diffidenza: “Alla viola! Ếcchi gliu munnu fenisce a capaballe!” (Oibò, qui il mondo si rivolta sottosopra!).
Avere pronta una foto per essere ricordati, era un pensiero rasserenante come quello di avere il posto al camposanto, un bel quadrato di terra dove col passare degli anni si riunivano i familiari. E anche senza foto e iscrizioni ma solo date e una croce di legno tutto il paese sapeva che lì c’era la famiglia di questo e di quello.
Neppure la morte cancellava le differenze di ceto. Le cappelle gentilizie lungo il viale principale e le fosse a terra sul retro, riproducevano in formato ridotto la dislocazione abitativa dei ricchi e dei poveri, dei potenti e della massa, così com’era stato in vita. E comunque una preghiera e un fiore non si faceva mancare a nessuno, di conforto anche a se stessi:
Venga sant’Anna e santa Caterina,
e l’angelo che m’appiccia la cannela,
la Madonna che me stenne la mano
e me ‘nsegna la via che aglio da fa’.
E nonna Maria, rivolta al suo avvocato di fiducia, aggiungeva una postilla che finiva di coprirle le spalle:
Da gli nemici e da ogni foco
sant'Antonio ce dia loco,
vada pure agli sprufunni
chi non te' la mente bbona.
“Abbiamo più tempo che soldi”, usavano dire i nostri vecchi per intrattenere eventuali visitatori e invogliare alla conversazione.
Poveri di soldi ma generosi di parole, sarebbero stati sempre lì a raccontare storie, a ragionare sulle mutazioni delle stagioni, a spiegare come si pota una vigna o quando si pianta il grano, e come un ulivo che sembra morto possa formare nuovi getti, e quanto contino le fasi lunari e più ancora il lavoro dell’uomo e la cura del prodotto.
Mi mancano i miei vecchi.
Mi manca nonna Maria e i nonni che non ho mai potuto abbracciare, gli zii che tante volte mi hanno abbracciato, mio padre che non ha avuto il tempo d’invecchiare.
Mi manca mia madre, che non sempre ho ascoltato e alla quale non ho rivolto tutte le domande che ora vorrei farle.
Quando da ragazza andò al cinema per la prima volta con mio padre, al Teatro Narzio a Subiaco, qual era il titolo del film muto e che impressione le fece?
Che cosa le suonava mio padre sotto le finestre col suo mandolino? Che cosa le scriveva, quand’era lontano a fare il militare o per lavoro?
Com’era il vestito che indossò per le nozze? Come si sentì a lasciare la principesca casa paterna per andare a vivere con i suoceri in due stanzette buie sopra stalla e cantina?
Come si sentì, quando donò la fede alla Patria? E come aveva vissuto la prima guerra mondiale, quand’era ancora bambina?
Perché non le ho mai chiesto di raccontarmi come vissero in una cabina elettrica durante l’ultima guerra, con me piccolina e lei senza latte al seno?
Come ha fatto mia madre a sfamare la famiglia partendo dalla raccolta della cicoria per arrivare a portare a casa, a furia di scambi, zucchero e uova?
Mio padre portava il pane che non mangiava a mensa, e i miei fratelli correvano sotto le bombe per avere la razione di pane con la tessera, o pulivano gli stivali ai tedeschi per una gavetta di minestra. Ma era mia madre che apparecchiava e rendeva dignitosa la tavola anche quando poco c’era da metterci sopra.
Come faceva a stirare col ferro a carbone le camicie bianche di tre uomini senza lasciare una grinza o il minimo sbaffo?
Dove prendeva la sua eleganza semplice, i gesti garbati delle mani che non mostravano mai i segni del lavoro?
Quando preparava il tè per le vicine, dopo che la guerra era passata e la vita aveva ripreso a scorrere normale, mia madre, che nessuno aveva educato alle belle maniere, era un’ospite perfetta attenta ai dettagli e ai gusti delle signore. Allora le vicine non si chiamavano solo per nome, ma si rivolgevano tra loro chiamandosi signora Nannì, signora Giova’, signora Assu’. E nominando persone assenti veniva usato lo stesso riguardo.
Ora vorrei chiedere a mia madre come ha vissuto i grandi cambiamenti durante la sua lunga vita. Ma credo di sapere come la pensasse: le piaceva il presente, mai ha rimpianto il passato. E le piaceva immaginare come sarebbe stato il futuro dei suoi cari.
Mia madre, rimasta presto vedova, viveva per la famiglia. Adorava i suoi nipotini, ogni volta che si annunciava una nascita riprendeva vigore. I miei figli sono stati svezzati nella sua cucina inondata di sole, rotolandosi su una coperta e battendo la grancassa con pentole e coperchi. Hanno mangiato minestrine e mele cotte mentre la nonna raccontava loro sempre le stesse storie d’un tempo che fu:
Un vecchio aveva un cece.
“Me lo tieni brava donna questo cece, che stasera me lo vengo a riprendere?”
“Non posso, ho la gallina che se lo mangia”.
“E tu mettilo dove la gallina non può arrivare”.
La sera il vecchio torna e chiede del cece, ma la gallina se l’è mangiato.
“O mi dai il cece o mi dai la gallina”, e la brava donna è costretta a dargli la gallina.
Il vecchio prosegue la sua strada e bussa a un’altra porta.
“Me la tieni brava donna questa gallina, che stasera me la vengo a riprendere?”
“Non posso, ho il maiale che si mangia la gallina”.
“E tu mettila dove il maiale non può arrivare”.
La sera il vecchio torna e chiede della gallina, ma il maiale se l’è mangiata.
“O mi dai la gallina o mi dai il maiale”, e la brava donna è costretta a dargli il maiale. Il vecchio prosegue la sua strada e bussa a un’altra porta.
“Me lo tieni brava donna questo maiale, che stasera me lo vengo a riprendere?”
“Non posso, qui c’è un lupo che si mangia il maiale”.
“E tu mettilo dove il lupo non può arrivare”.
La sera il vecchio torna e chiede del maiale, ma il lupo… e …
Ricordo quando ci morì il maiale. Era appena passata la guerra, si stava ancora riparando la casa, distrutta in parte dai bombardamenti quand’era ancora in costruzione. Accanto al forno a legna era stato fatto un riparo in muratura per un maialino, ottenuto non so come.
Gli avevamo assegnato anche un nome, Rosetta, essendo una scrofa. Io ero addetta alla raccolta delle melucce che le davamo in abbondanza.
Rosetta cresceva bene, e tutti ci eravamo affezionati a lei come a un cagnolino troppo grosso. Poi Rosetta si ammala e mamma tenta ogni rimedio per curarla ma tutto fu inutile e perdemmo Rosetta.
Mamma pianse tutto il giorno, era una grossa perdita in tutti sensi, e quando la sera papà tornò dal lavoro cercò di confortarla: “Ne compriamo un altro, Nannì, non è la fine del mondo” ma aveva gli occhi lucidi. Poi scavò una buca e Rosetta fu trasportata con la carriola e sistemata in un angolo dell’orto.
La carriola all’epoca era indispensabile. Quando diventava vecchia e inservibile veniva usata come fioriera o come barbecue trasportabile, soprattutto per gli ortaggi che non mancavano mai. La frutta c'era solo quand’era stagione, e si mangiava così com’era appena raccolta; le rare volte che si comprava, mia madre la sbucciava. Ma era un lusso riservato solo a noi figli, come il merluzzetto ogni venerdì o la fettina di carne di cavallo – per combattere l’anemia del dopoguerra – che arrostiva alla brace dentro la carriola.
Quante carezze si fanno nella vita senza usare le mani ma solo il cuore. Quante carezze si ricevono nella vita che non passano sulla pelle ma dentro l’anima.
Avrà mai ricevuto una carezza, mia madre? Forse da mio padre, nei rari momenti d’intimità. Io da mia madre aspettavo una carezza ma non sono mai riuscita a farne a lei.
Tempi avari di gesti teneri, riservati solo ai bambini in fasce. “Bacia tuo figlio quando dorme”, consigliavano i vecchi. Ma quanta dedizione in ogni gesto e pensiero!
Maria Lanciotti