Uno dei peccati più gravi – da un punto di vista artistico – quando si descrive un paese straniero, è forse il peccato di “esotismo”, intendendo con questo termine una concezione idealizzata e allo stesso tempo convenzionale, dunque doppiamente irreale, del paese che si vorrebbe raccontare.
In questo difetto incorre a mio parere il film di un autore italiano che sta riscuotendo un clamoroso successo internazionale – è candidato a 4 premi Oscar, fra i quali quello per il Miglior Film. Si intitola: Chiamami col tuo nome; è tratto dal romanzo omonimo, un best seller, di uno scrittore americano, André Aciman; e lo ha diretto Luca Guadagnino.
Ora, Guadagnino è italiano. Ma gli va subito riconosciuta l'abilità – o sarebbe forse meglio dire la sottile astuzia – di raccontare l'Italia come se lui fosse straniero, per il compiacimento, magari non calcolato, di un pubblico internazionale che ami sentirsi confortato in certi pregiudizi, in certi eruditi e inveterati clichés sull'Italia, magari lusinghieri per il nostro paese, ma che, come capita ai pregiudizi e ai clichés, sono poco veritieri.
L'Italia del film, collocata negli anni Ottanta un po' inspiegabilmente (visto che la vicenda è tutta intimista), non soltanto è esaltata nella bellezza delle sue campagne, dei laghi, delle città d'arte; non soltanto i suoi abitanti sono ritratti nei loro atteggiamenti più pittoreschi, quando gesticolano a tavola discutendo di politica, o quando le donne più anziane siedono su una panca fuori dalle loro case; ma in questa Italia rivive lo spirito del paganesimo: quello per cui, ad esempio, i suoi ragazzi, vagheggiati simili alle creature, piene di sensualità, delle statue greche e romane (che si tratti di atleti o di delicati efebi); i suoi ragazzi, dicevo, sono pronti a rivivere, senza inibizioni, gli antichi riti della pederastia greca.
Proprio infatti seguendo il modello di quella particolare forma di omosessualità maschile, in Chiamami col tuo nome, si racconta di un uomo, giovane ma adulto, un turista americano venuto a trascorrere un'estate in Italia per completare i suoi studi di archeologia, e un ragazzo italiano (in verità, mezzo italiano mezzo americano), figlio della coppia che ospita il turista nella sua casa di campagna. Un rapporto d'amore, che sempre un po' sul modello greco, che certo non prevedeva unioni civili tra persone dello stesso sesso, si interrompe quando uno dei due, l'americano, l'adulto, lascia la casa di campagna, torna al suo paese e si sposa.
Ora, l'irrealtà di tutto il contesto ambientale e culturale in cui è collocata la vicenda, non poteva non contaminare anche la storia d'amore. E in particolare la figura dell'americano, allo stesso tempo bellissimo e coltissimo, è così idealizzata e così esteriore, che risulta finta come quella di un manichino. La ritrosia, con cui a lungo affligge l'adolescente dopo averlo lui stesso provocato, resta nebulosa nelle sue motivazioni, malgrado la spiegazione, poco convincente, che sul finale del film lui stesso le dà.
Bisogna dire allora che Chiamami col tuo nome è un film tutto mancato, privo di verità artistica?
Non mi sentirei di arrivare a una conclusione così drastica, perché un merito, e non da poco, il film ce l'ha davvero.
L'adolescente, interpretato dall'attore franco-americano Timothée Chalamet (foto), grazie soprattutto alla sua straordinaria interpretazione – uno di quasi casi rari in cui non si riesce a distinguere l'attore dal personaggio – risulta, nei suoi sentimenti, nelle sue variazioni espressive, sempre fresco e autentico. Per rendersene conto, basterebbe considerare l'ultima inquadratura del film, molto bella, che resta a lungo fissa sul suo volto. Un volto segnato dal dolore e dalla rabbia – dopo che il ragazzo è stato lasciato dal suo amato – ma nel quale senza forzature, senza nessuna artificiosità, si fa strada comunque un sorriso al ricordo della bellezza di un amore durato lo spazio di un'estate.
Almeno per questo personaggio, per questa interpretazione, il film merita di essere visto.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 3 febbraio 2018
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