“Sia tempo a notte di polmoni il dormire,
dormire-qui-per terra!, ad atto che conosce
tutto del mio sogno: e sia, sia buio,
buio a scacciamosche!, l’ombra di bastone
che, curva di sutura, ruota sulla stella
sulla corsa sul leone”
Quest’originale cadenza, articolata secondo immagini precise e anche evocative, coglie di sorpresa: il “tempo” con cui si apre la pronuncia è come arrestato dalla meraviglia.
Non si tratta di una costrizione, bensì di un desiderio di partecipare, di percorrere assieme alla poetessa uno sviluppo linguistico ricco di fascino.
Elementi vari, cronologici, fisiologici, onirici, zoologici, conducono in un mondo popolato da fisionomie diverse congiunte in un divenire poetico che, nel presentarle, le fa esistere.
Entrare in una sequenza come questa, partecipare alla sua sorprendente complessità, significa riuscire a esserci, pur trovandosi in una dimensione originale, davvero inaspettata.
Ci si accorge, così, che quelle parole, quelle brevi frasi, sono sconosciute e anche conosciute.
Quel dormire-qui-per-terra!, ad esempio, con il punto esclamativo che sembra quasi bloccare, appunto esclamando, una propensione all’espressionismo, è vivida articolazione d’immagini, di ricordi, di possibilità.
Di fronte, poi, all’ombra di bastone / che, curva di sutura, ruota sulla stella / sulla corsa sul leone, non si può non avvertire la presenza di un impulso cinetico, di portata quotidianamente cosmica, che si amplia, tende a diventare universale e, contemporaneamente, affonda radici nella terra.
Per la poetessa, l’universale, il cosmico, e il fantastico sono lineamenti della natura umana che non si distinguono in maniera rigida dal quotidiano, poiché ne fanno assiduamente parte.
Ancora, dunque, dopo la presenza contemporanea di precisione ed evocazione, di cui parlavo all’inizio, compaiono altre due fisionomie idiomatiche apparentemente non concordanti: l’universale e il quotidiano.
Siamo al cospetto di una propensione all’ossimoro?
Sì, anche, a condizione, però, di non considerare tale attitudine quale meccanico atteggiamento rivolto a suscitare automatica sorpresa.
La varietà del mondo diviene, per così dire, argomento di uno stupore controllato e, proprio per questo, particolarmente intenso, poiché di tale argomento fanno parte la stessa poetessa e il suo idioma.
Non si tratta di optare per il dividere o per l’unire, si tratta, piuttosto, di riuscire ad apprezzare, fino in fondo, tutto quello che c’è e di scoprire, così, che le classificazioni hanno senso soltanto entro certi àmbiti.
Se non esistesse l’universale (o l’evocativo), non potrebbe esistere il particolare (o il preciso) e viceversa: simili concetti opposti fanno, insomma, parte di un costume linguistico che, proprio nel distinguerli, li mette in relazione tra loro o, per usare un termine oggi in voga, li connette.
Nel caso della strofa in commento, si tratta di una connessione derivante dall’accostarsi e dal compenetrarsi di contingenze idiomatiche dotate di vivida, intima, energia.
Coinvolti in questo ininterrotto divenire, ci ritroviamo a essere partecipi di un linguaggio in cui riconosciamo tratti familiari.
È possibile comunicare non soltanto per via degli usuali canoni (il cui uso, peraltro, è spesso insoddisfacente), ma anche non rispettando le regole, promuovendo, così, la nascita di un dire altro, inedito.
Le umane potenzialità espressive sono talmente ampie da sorprendere talvolta, in virtù della loro originalità, gli uomini stessi: percorrendo il fecondo itinerario di scacciamosche facciamo esperienza di quella meraviglia che è anche consapevolezza e, perciò, conoscenza ulteriore.
“è cifra, fu detto, scissa di presenza
la notte a-non-ricordo plasmata,
bianca di gradini, dove, il cuore,
tu versi a guado della bocca”
Con una “cifra” “scissa di presenza” si apre una strofa in cui “la notte”, priva di memoria, si mostra quale àmbito in cui emergono elementi fisiologici (“il cuore”, la “bocca”) congiunti in modo del tutto inedito.
Siamo al cospetto di una tendenza al surrealismo?
O, forse, soprattutto negli ultimi due versi, è presente un’inclinazione all’espressionismo?
Possiamo rispondere in maniera affermativa a entrambi i quesiti, purché non dimentichiamo come simili atteggiamenti poetici si svolgano secondo equilibrate cadenze poco propense a creare eccessivi sconvolgimenti.
La poetessa non vuole sconcertare, piuttosto è propensa a dire, a esporre uno sviluppo vario e imprevedibile che riesce a farsi integrità esistenziale, vita nei suoi dissimili aspetti.
Occorre, senza dubbio, un alto livello di concentrazione per leggere davvero i versi in argomento, ma lo sforzo richiesto ripaga perché permette di riconoscersi in un’inattesa dimensione verbale intensa e feconda.
Il ritmo, qui, è esatto e necessario, è incidenza di una parola che sorprende per promuovere un vedere migliore, una parola i cui intagli, lungi dal ferire, aprono nuovi spazi: nell’improvviso, immenso, ampliarsi di sottili fessure esistenziali consiste, insomma, il nucleo originale della poesia di Silvia.
Un nucleo che è espressione e, assieme, efficace, vivido desiderio di comunicazione.
La poetessa costruisce un suo specifico idioma tale da non tradirla, da non creare equivoci.
I suoi versi non possono essere fraintesi, poiché il loro composto vigore non concede spazio al malinteso: le immagini sono proprio quelle, il ritmo è proprio quello, l’atmosfera è proprio quella.
Scrivere l’essere, questo è l’arduo compito del poeta e Silvia riesce in simile impresa.
Leggo a pagina 21:
“disse che è ampia quanto una fronte
l’ampiezza che varia di vita nell’onda
muta di cielo sgombro a trifoglio”.
Si tratta di una breve pronuncia, dall’evidente valenza enigmatica, in cui compaiono parole d’uso comune: “fronte”, “vita”, “onda”, “cielo”, “trifoglio”.
Simile aspetto attira il lettore il quale, interessato a seguire l’impronta tracciata dalla poetessa, non viene indotto a tentare di sciogliere l’enigma ma a lasciarlo scorrere lungo una scansione che chiede, innanzi tutto, di essere ascoltata.
Ascoltata per ciò che è, ossia suggestivo sviluppo idiomatico che non dice secondo logica, eppure parla.
Parla di una vivida “ampiezza” mai identica a se stessa “nell’onda / muta” di un “cielo” in cui può trovare posto il “trifoglio”.
A mio avviso, il “disse” iniziale è immediata sottolineatura dell’evento proposto: il consueto idioma può anche volgersi in inedito linguaggio poetico.
Attenzione, però: non viene chiesto di abbandonarsi a una pur affascinante cadenza, bensì di riflettere sui collegamenti tra le singole parole, sulla maniera in cui simili relazioni sono proposte, su quel tutto che è sequenza di versi e anche altro, su un dire in poesia che è anche dire la poesia.
Insomma, il pensiero della poetessa tende a divenire pensiero del lettore (e viceversa)?
Sì, senza dubbio e bene si vede, qui, come l’enigma possa essere fonte di comunicazione.
Marco Furia
Silvia Comoglio, scacciamosche – nugae
Prefazione di Marco Ercolani
Profilo critico di Marco Furia
puntoacapo Editrice, 2017, pp. 62, € 10,00