Non sempre in un racconto, cinematografico ma anche letterario, siamo messi in condizione dall'autore di capire subito la situazione di vita dei personaggi, certi loro strani comportamenti che da quella situazione dipendono. Dobbiamo lentamente “acclimatarci” alla realtà descritta dal film, un po' come l'occhio deve assuefarsi all'oscurità di un ambiente prima di riuscire a distinguere gli oggetti.
Così in Una famiglia, il secondo lungometraggio di Sebastiano Riso, lì per lì non riusciamo a comprendere perché una giovane donna, affiancata da un uomo più maturo, in un vagone della metropolitana, come colta da un raptus si metta a inseguire dei bambini. Così come non comprendiamo le ragioni della sua perenne malinconia, o dei suoi momenti di esasperazione, in un ménage che sembra quello di una comune vita di coppia.
E se tentiamo delle ipotesi, saranno probabilmente sbagliate, perché la situazione che Riso descrive è abnorme, perfino mostruosa.
È centrata su una particolare forma di sfruttamento del corpo femminile – rispetto alla quale la donna recalcitra, a cui cerca di sottrarsi attraverso dei sotterfugi, ma a lungo senza la necessaria energia e dunque invano – per la quale l'uomo maturo che abbiamo visto al suo fianco, l'ha messa e continua a metterla incinta, per poi vendere i bambini a coppie facoltose che non possono avere figli. Sono parte, insomma, di un piccolo giro criminale.
In una scena del film su un terrazzo, sotto la cupola di San Pietro – è l'abitazione di una coppia di due uomini – si afferma che a quell'espediente si fa ricorso vista la difficoltà, o in certi casi l'impossibilità, in Italia, di adottare legalmente un bambino.
È uno spunto polemico che nel film resta secondario, il racconto essendo piuttosto focalizzato sul tema del controllo, del possesso e appunto dello sfruttamento del corpo femminile, di cui certo il primo responsabile è il convivente della donna, ma a cui partecipa un ginecologo loro complice (le cui visite e i cui interventi clinici sono brutali), e la stessa coppia omosessuale, che è certo ben affiatata, amorosa, il cui desiderio di avere un bambino è perfino struggente, ma che intende appropriarsi del bambino anche di fronte all'evidente pena della madre.
Altro tema poi è – in quel giro d'affari – l'inevitabile mercificazione dei bambini che, se malati, vengono restituiti al venditore proprio come un prodotto avariato.
Insomma: Riso si accosta al suo tema con l'attitudine del moralista, esprimendo un evidente giudizio di sostanziale condanna.
Allo stesso tempo il suo film rimanda a significati più generali, essendo il controllo maschile della procreazione, come è noto, una caratteristica essenziale della società patriarcale.
Ora queste caratteristiche – il moralismo e la tendenza allegorica – potrebbero far pensare che Una famiglia sia un film ideologico, forzato nel racconto dei fatti e dei personaggi per avvalorare un giudizio, per dimostrare una tesi.
E invece non è così. I personaggi non sono soltanto incarnazioni di temi astratti. Sono personaggi reali, contraddittori e sfumati. A partire dalla sfruttatore: certo sordido, abietto, ma allo stesso tempo un povero diavolo, che usa il talento di sfruttare le donne perché forse altrimenti sarebbe destinato alla fame (una specie di nuovo accattone pasoliniano, che però non si redime). È interpretato, in modo sempre credibile, da Patrick Bruel.
Ma il personaggio più ricco, più bello, è proprio quello della madre (una grande prova d'attrice di Micaela Ramazzotti), seguito per tutto il film nei suoi diversi stati d'animo, nella sua lenta e tortuosa evoluzione da una soggezione quasi masochistica allo sfruttatore fino a una ribellione animata dall'istinto materno.
Sebastiano Riso è stato vittima in questi giorni di una aggressione di stampo omofobico. Gli esprimiamo la nostra solidarietà. Ma a prescindere da questo episodio, vi consiglio il suo film perché è bello, certamente da vedere.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della rubrica “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 7 ottobre 2017)