I migliori poeti del secolo di Baudelaire hanno forzato la lingua dei padri per destrutturarne il senso, al fine di ricavare proprio del senso un nuovo carattere. La loro posizione non è unicamente contro la società del loro tempo, ma contro l’ordine stesso dell’essere, in virtù di una loro desiderata, dichiarata e professata volontà di non esserci più in quanto Io, per consacrarsi totalmente all’Opera, in cui un intero universo dovrebbe riflettersi, rispecchiarsi. Un’Opera che non rimanda ad altro. Un’Opera tesa a coincidere con se stessa, affidata a una lingua epurata dalla soggettività, nel congedo anche dell’identità interiore, fino ad accogliere l’enigma della presenza, nella lotta che compone e separa.
Secondo questi poeti, dunque, la poesia e quella parola che la costituisce non appartengono più a chi scrive; non sarà lui a deciderne il senso, in quanto, come scrive Hugo, il poeta sa soltanto in parte, a volte in minima parte, ciò che la poesia finirà per dire; ignora quale dimora nel vasto mondo prenderanno i suoi versi.
Questo è la poesia: un mistero in piena luce, nell’enigma dell’evidenza. E Bonnefoy è preciso a tale proposito quando aggiunge che poesia è anche volgere le spalle ai miraggi, dai quali il poeta, prima degli altri, deve rifuggire per sviluppare percezioni sempre più consapevoli della finitudine.
La questione non riguarda più il discorrere dell’uomo, ma il dire del linguaggio. Tanto che diventa legittimo chiedersi se i poeti in questo modo non rischiano di perdere di vista il mondo dove invece si trovano i dati dell’esperienza autentica... Infatti, si domanda Bonnefoy: «Il poeta non è dunque altro che un sognatore che perirà del suo stesso sogno?». Forse sì. Forse scrivere è un modo per combattere la difficoltà di vivere… Ne dà prova Laforgue che acquisisce la piena consapevolezza che tramite la poesia non si abbandona la realtà per accedere a una verità superiore. Laforgue accentua il rifiuto delle teorie romantiche – un diniego proprio a tanti poeti del suo secolo – per concepire una poetica del tutto diversa. Vediamo così l’Io decomporsi, la scrittura paralizzarsi, i significanti diventare autonomi, decretando così il decadere di quella fede che «faceva ergere il soggetto parlante nell’evidenza dell’essere», come testimonia Bonnefoy.
Bisogna avere cura di quella parola che, non ancora decaduta a mero segno, tocca e ri-guarda direttamente la cosa nella sua totalità di cosa e spirito. Ma come e dove si rende accessibile una simile parola, la parola inaudita, assoluta di Mallarmé, la parola muta e sconosciuta di Hofmannsthal? Come e dove parla la lingua di una verità non “superiore” ma propria delle cose?
Bonnefoy interroga a questo proposito proprio Hofmannsthal, con particolare riferimento alla sua Lettera di Lord Chandos, sottolineando significativamente che questo grande autore nasce nel 1874, lo stesso anno in cui Rimbaud smette di scrivere…
Premettiamo che Rimbaud alla fine di Una stagione all’inferno annota: «Sono restituito al suolo», proprio lui che aveva voluto creare «tutti i trionfi». Esattamente come Baudelaire che abbandona l’anelito verso un mondo ideale per riconoscere come propria unica realtà la finitezza. La poesia diventa il luogo del passo indietro del pensiero, dove questo, a contatto con le piccole e semplici cose, trova quella dimensione dove la parola – con i suoi limiti – e non l’assoluto lo esorta e lo ammonisce. Da qui il dovere di portare a parola l’esperienza dello spirito e fare dello spirito un atto linguistico.
Ebbene, Hofmannsthal, come riconosce Bonnefoy, può essere posto, malgrado le apparenze, in una linea di continuità con questi due poeti. Basti pensare come nella Lettera di Lord Chandos egli riconosca quella crepa abissale che ormai lo separa dalle ambizioni letterarie che aveva sempre nutrito. Una crisi? Sì, una di quelle crisi attraverso le quali la poesia costantemente passa e di cui misteriosamente si nutre… Ma questa è una crisi più profonda. Lord Chandos – e Hofmannsthal attraverso di lui – comincia a riconoscersi nella lingua in cui gli parlano le cose mute, quella lingua «in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto», una lingua «di cui non una sola parola mi è nota».
Sia chiaro: Lord Chandos non invoca il silenzio. Scrive Bonnefoy che Hofmannsthal, come Rimbaud, «ha voluto semplicemente porre il più intensamente e precisamente possibile un problema di cui non aveva ancora la soluzione»; un problema del quale probabilmente non c’è soluzione. E che fa capo al riconoscimento del carattere linguistico dell’immaginazione poetica, quale spazio autonomo della parola.
Evocando le cose, le parole hanno la capacità di cancellarsi in quanto parole e, in altri termini, di annullarsi in quello che realizzano. D’altra parte, come non vedere che l’autodistruzione che con Hofmannsthal le parole compiono è assai simile all’atto del suicidio immaginario di chi quelle parole ha nominato?
Flavio Ermini, La poesia? Un mistero in piena luce,
nell’enigma dell’evidenza
Postfazione a: Yves Bonnefoy, Il secolo di Baudelaire
nella traduzione di Anna Chiara Peduzzi (Moretti&Vitali, 2016)
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