Per Maurizio Ferraris (L’imbecillità è una cosa seria, Il Mulino, 2016) quello che contraddistingue, denota e definisce la condizione dell’essere imbecille è un diverso rapporto, dell’intelligente e dell’imbecille, rispetto all’interesse. Si intende per interesse: quella particolare attenzione rivolta verso qualcosa o qualcuno che alcune volte è più rilevante, altre volte è meno evidente. Si intende per interesse il modo di comportarsi con partecipazione e apprensione verso le sorti di qualcosa che alle volte può essere meno saliente e altre volte più diventare particolarmente importante. Si intende che l’interesse cui si riferisce Maurizio Ferraris non è verso le persone o le cose. Esso è invece di tutt’altro tipo.
Leggiamo dalle pagine del suo libro: «Definisco poi, compendiariamente o transcategorialmente, l’imbecillità come cecità, indifferenza o ostilità ai valori cognitivi, che dunque come tale è una colpa (inversa e simmetrica al peccato originale, che consiste in una eccessiva curiosità nei confronti dei valori cognitivi), ed è più diffusa tra chi ha ambizioni intellettuali, risultando così la chise du monde la mieuxpartagée». E, poco più sotto: «Contrariamente alla teoria del trauma di Freud e di Adorno, è proprio la ferita o la scottatura che trae dall’imbecillità che è propria dell’umano, e incammina verso l’intelligenza. L’imbecillità, sentenziavo all’inizio, è indifferenza ai valori cognitivi, ma, di qui, prende mille volti, e si presenta come un inciampo e, insieme, direbbe Derrida, una différance con la a (neologismo che gli valse la censura di sua madre, che lo trattò da imbecille per quello che si presenta come un grossolano errore di aortografia), una porta sempre rilanciata, un intrattenimento e un differimento infinito». «Cecità», «indifferenza» e «ostilità», e dunque mancanza di interesse, nei riguardi dei «valori cognitivi» conducono dunque alla constatazione che «Dall’imbecillità non pare si possa cavare niente, se non l’umiliazione dell’umana vanagloria». Intanto «L’imbecillità assicura una sicura base demografica. I matti sono pochi, i mona sono tanti, così come tanti sono i poveri».
Ma quale è la caratteristica più evidente dell’imbecillità? «Una persona intelligente è in qualche modo obbligata, deve seguire delle regole e dunque sottostare alla causalità. Solo l’imbecillità, il gesto scomposto, la parola fuori luogo, l’azione che nuove a sé e agli altri, rompendo radicalmente con l’ordine delle cause, ossia essendo senza ragione, ci consegna alla totale e assoluta libertà». Questo diverso rapporto con l’interesse, che caratterizza al meglio l’intelligenza e l’imbecillità, conduce Ferraris, nel corso del suo libro, a una disamina del secondo dei due termini che, poi, a ritroso vuole esser anche una spiegazione delle caratteristiche del primo. «L’imbecillità è una cosa seria» ma è anche «Vero che l’imbecillità è il motore faustiano di ogni progresso umano, ma è anche vero che l’immancabile risultato di questo progresso consiste in sempre nuove rivelazioni dell’imbecillità».
Cos’è, dunque, per Maurizio Ferraris questa imbecillità? Una mancanza di interesse verso i valori cognitivi che conduce ad una progressiva presenza di interesse verso altri valori. Quali valori? Scrive Ferraris: «Non l’ignoranza, come pretende Socrate, ma l’imbecillità è l’origine del male, tanto è vero che non viene superato». Dunque si tratta, in questo caso, di valori eticamente connotati in senso negativo. «Valori cognitivi» versus «il male»: il che è come dire che una mancanza di interesse per una cosa produce automaticamente un’elevazione dell’interesse verso un'altra. Ma può l’imbecillità interessarsi di qualcosa?
Gianfranco Cordì