– Un libro di racconti brevi in forma di poesia che si avvicinano molto all’ultimo tuo scritto Il silenzio non è detto. Essi sembrano respirare nella irregolarità della punteggiatura che segna la fine di un verso e l’inizio dell’altro. E lentamente s’infilano attimi di vita colti ognuno da un battere di ciglia, attimi brevi che vengono a disegnare la vita che scorre tra “guardato e guardante” insieme all’attesa di un evento. Colgo un’attenzione meticolosa verso i particolari, oggetto del sentire, del ripiegamento meditativo, dello sguardo che dal battere delle palpebre diventa quadro interiore. Flavio Ermini introduce il tuo testo parlando di “appello silenzioso dell’essere”.
Vuoi parlarne?
Flavio, nella sua introduzione, si è messo a fianco dei miei racconti, e come un amico intimo e fidato mi ha rivelato di essi aspetti che solo intuitivamente sapevo di aver raccolto durante la scrittura. Il suo testo è denso, intelligentemente sensibile e parlarne diffusamente impiegherebbe molto tempo ed energia. E allora per rispondere alla tua domanda, che contiene un’infinità di risposte, cito l’introduzione stessa dove Flavio punta il dito su un aspetto fondamentale: “dentro lo sguardo, tra guardante e guardato, si può finalmente cogliere l’appello silenzioso dell’essere”. Per dire che ciò che conta non è tanto il guardante e il guardato, ma quello spazio “tra” loro. È in quello spazio che si gioca tutto: prossimità e lontananza, differenza e reciprocità, l’agire e il patire, ecc. È in quello spazio “tra” loro che si apre un altro e più potente interstizio, che è quello “tra” noi (lettori) e loro (protagonisti) dove ancora più forte risuona l’appello silenzioso dell’essere. E quello spazio è radura in senso heideggeriano, apertura che rende possibile la rivelazione del sé e dell’altro da sé, luogo in cui l’essere esordisce.
– Fin da questo tuo primo testo giovanile, “celato” e oggi finalmente edito, si evincono quelle che saranno poi le tue tematiche, amplificate, rimeditate e riflesse nelle altre sillogi; e quindi il viaggio… l’andare e il tornare… la modalità delicata di entrare nel mondo della donna e dell’amore, il silenzio necessario a cogliere luci ed ombre o meglio dell’ombra la luce.
Il catturare le tonalità e le variazioni dei capelli al sole, il fotografare il punto del collo dove i capelli si annodano, le luci accese di notte che aspettano ritorni, nel guardante e il guardato, sembrano più concentrate, più esposta emozionalmente la parola.
Sì, alcuni temi più o meno sono sempre gli stessi. Quello che cambia è il modo, la forma, come vengono affrontati. La forma offre sostanza differente al contenuto, e lo trasforma. Quindi sì, è vero che alcuni temi compaiono ossessivamente anche nei miei libri successivi, e in ciascuno di essi qualcuno ne diventa protagonista, ma gli altri restano comunque sullo sfondo, non esiliati, e semplicemente continuano a svolgere una funzione per così dire “ambientale”. Il senso e non il significato nelle espressioni artistiche conta.
– Nel leggere mi sovviene la pittura di Degas e il cinema di Truffaut e anche Don Franco* ne aveva parlato… emerge cioè quel personale che si eleva ad universale che parla a tutti e guarda-guardato gli aspetti multipli della vita… e ricorda Degas nei flussi di luce che schiariscono l’immagine prima di adombrarla di buio…
Mi citi Truffaut, ma ti rispondo con Wenders o con Kim Ki Duk; mi parli di Degas, ma preferisco Cézanne al quale in quegli anni dedicai una monografia. L’osservazione, non il narrato, è l’anima di quei racconti. L’osservazione che genere immaginazione, proiezione, tempo per la riflessione e ascolto della sensazione. Attenzione per il dettaglio senza perdere di vista l’insieme. Un po’ come succede quando con un colpo d’occhio ti fai un’idea, anche senza volerlo, di una persona. Ti sembra di aver guardato soltanto l’insieme, ma se ti fermi un attimo a pensarci, scopri che hai visto molto di più di quello che pensi: una ruga particolare sulla fronte, una certa luce negli occhi, un gesto apparentemente casuale della mano, l’incedere del passo.
– C’è una cosa in più… la desoggettivazione avviene prima della scrittura nel parlato in terza persona… pudore? Predisposizione ad offrire più che ad esprimere sé stesso?… i racconti-poesia che restano sospesi… Possono indicare una modalità di condivisione perché sia l’altro a continuare il tuo racconto con le proprie vicende?
Il parlato in terza persona è stata una conseguenza dovuta al come questi racconti sono nati. Presto molta attenzione a ciò che mi è attorno, e così molto spesso incontro volti, gesti, persone, situazioni, paesaggi eccetera, che attraggono la mia attenzione per i motivi più disparati. Quando scrissi questi racconti la mia memoria in un certo senso fotografava, mentre la coscienza elaborava su due piedi un tema. Il tutto mi tornava ben presente una volta seduto alla mia scrivania, e lo raccontavo. Quei particolari si univano e generavano una storia, e la generavano man mano che la storia si scriveva (tuttora, anche in poesia scrivo così, con qualche differenza). In un certo senso ero spettatore io stesso di ciò che andavo raccontando.
Il discorso che tutto resta sospeso, che il racconto in fondo non ha una sua conclusione, in parte è dovuto al fatto che erano porzioni di vita catturate all’interno di un flusso, che aveva un passato e un futuro che io stesso ignoravo. Mi interessava sentire che quel momento che stavo raccontando aveva un senso in sé, e nient’altro. A questo si aggiunge, ma è una riflessione a posteriori, che ho sempre apprezzato quegli autori che lasciano spazio al lettore, affinché il lettore possa elaborarlo con le sue congetture a partecipare al racconto stesso, portandoselo con sé, trovando in esso qualcosa che continua a dargli da pensare.
Patrizia Garofalo
* Franco Patruno (Ferrara, 1938 – 2007). Sacerdote e intellettuale, è stato docente di storia dell’arte a Ferrara e Bologna, presso la Facoltà Teologica; Direttore dell'Istituto di Cultura “Casa G. Cini” di Ferrara e critico d'arte e cinematografico dell'Osservatore Romano.