È uscito, quasi senza promozione pubblicitaria, il film di una regista francese molto brava, Mia Hansen-Løve, già autrice di Il padre dei miei figli e Un amore di gioventù.
Eden è produttivamente più impegnativo dei film precedenti, forse artisticamente meno riuscito, ma tutt’altro che privo di interesse e di qualità.
Si racconta dell’avvento sulla scena musicale parigina, negli anni Novanta, di una coppia di dj davvero esistita, The cheers, propugnatori di una variante di musica elettronica chiamata Garage: a Parigi, ma poi anche, in tournée, a New York. Il film racconta la loro vicenda ed è insieme un affresco della vita di bohème dei giovani musicisti, appassionati di musica, ma anche scrittori e disegnatori, della Parigi di quegli anni.
Il successo dei Cheers, legato a una moda musicale, tramonterà nel giro di poco più di un decennio, lasciando in particolare uno dei due, il protagonista del film, sommerso dai debiti e costretto a ripiegare, per sopravvivere, su un lavoro per lui più mediocre.
Tale percorso potrebbe suggerire una lettura moralistica della vicenda. Una libertà, o un’aspirazione alla libertà, che sconfina con la frenesia – una frenesia fatta di nottate in discoteca, ma anche di spese folli, di un uso smodato della cocaina, di relazioni amorose perennemente in crisi, precarie – finirebbe punita da un destino fallimentare.
Ma non è questo il punto di vista dell’autrice sui suoi personaggi, che si mantiene crudelmente oggettivo. Non li esalta, ma nemmeno li condanna. Il loro successo sembra fare tutt’uno con l’energia, l’esuberanza, della gioventù. E infatti viene meno all’inizio dell’invecchiamento. Altri talenti, più giovani, li soppianteranno proprio come, in un albero, nuovi frutti nascono dopo la caduta dei vecchi.
Come sempre avviene in quei racconti in cui la vita è considerata in primo luogo nei suoi termini biologici, il tono di fondo del film è pessimistico e disperato. Non è un caso che uno dei personaggi secondari – un disegnatore di fumetti – si suicida.
Il limite dell’impostazione deriva forse da un luogo comune: quello per cui, per raccontare la frenesia, occorre uno stile a sua volta frenetico. Un limite, perché la rapidità delle notazioni, pur precise, su ambienti e personaggi impedisce l’approfondimento.
Ma basta considerare la figura del protagonista – uno dei due disc jockey – fatuo, di un’euforia forse stolida, ma anche brillante e sognatore, colmo della luce – ingannevole, ma luce! – della gioventù, per ritrovare le notevoli qualità descrittive, l’esattezza dello sguardo, dell’autrice.
Gianfranco Cercone
(da Notzie Radicali, 18 agosto 2015)