La qualità più evidente di Anime nere, il film di Francesco Munzi che ha fatto incetta di premi ai David di Donatello (aggiudicandosi, fra gli altri, quello al miglior film e al miglior regista) è darci l’impressione di rendere senza artifici spettacolari, “allo stato grezzo”, il mondo della criminalità calabrese, prossimo o appartenente alla ‘ndrangheta.
È un mondo, come vediamo, come già immaginavamo, articolato in clan familiari, che si arricchiscono soprattutto grazie al traffico della droga; dotato dunque di spregiudicatezza imprenditoriale; trapiantato attraverso alcune sue articolazioni in grandi città come Milano, e tuttavia disperatamente arretrato per la mentalità di coloro che lo compongono.
Fedele al valore dell’onore – personale e familiare, da difendere anche a rischio della vita, a prezzo del sangue proprio e altrui; incline al sopruso ai danni di chi quell’onore non sa tenerlo alto; aggregato a chi dimostra di saper essere il più forte, è un mondo, proprio per tali caratteristiche, foriero di disgrazie e di lutti senza fine. Una via di uscita da tanto dolore ci sarebbe, e sarebbe evidentemente la resa alle leggi dello Stato.
Ma ecco: in una scena del film, la nonna di una famiglia di criminali, proprio subito dopo aver subito l’uccisione di uno dei suoi figli, quando si presenta un carabiniere a casa sua e le chiede i nomi dei presunti colpevoli, tace e sputa. Ed è un silenzio e un disprezzo rivolto ai rappresentati dello Stato, che sigilla lei stessa, la sua famiglia e tutto intero il suo mondo, in un destino tragico senza redenzione.
Il film di Munzi non trasforma in eroi i criminali e i conniventi di cui racconta. La sua è una denuncia, di una mentalità, prima ancora che di atti fuorilegge e impuniti.
Grazie alla conoscenza che ha maturato di quel mondo – dimostra infatti di sapere bene che per denunciare efficacemente bisogna conoscere a fondo ciò che si denuncia – Munzi riesce a disegnare tre ritratti incisivi, perfino potenti.
Il primo è di un criminale internazionale – si muove, tra Milano e l’Olanda – il quale, sottratto agli scontri quotidiani tra famiglie rivali nella sua regione d’origine, ha assunto i modi blandi, rilassati di un viveur: ma all’occorrenza, tornato al suo paese, ridesta in sé la ferocia che gli fu insegnata.
Il secondo è suo fratello maggiore, per il quale la rinuncia alla vendetta contro le tremende ingiurie subite, non diventando perdono cristiano, o nonviolenza gandhiana, dà luogo a un tormento che lo macera interiormente, fino allo smarrimento della ragione. Il terzo è suo figlio che, in contrasto con il padre, si assume l’onere di vendicarsi da solo, ma con la malinconia di chi presagisce di esporsi in questo modo a un martirio. Va detto che non tutti i personaggi del film sono altrettanto ben definiti. Ma l’affresco, ambientato tra i paesini arroccati sull’Aspromonte, o negli interni rustici delle case e dei casolari dove i clan vivono e si riuniscono, mantiene sempre un sapore di verità.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 27 giugno 2015)