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Gabriella Sica: L’artista e la croce. Caravaggio e Pasolini
27 Giugno 2015
 

L’accostamento di Pasolini a Caravaggio è senza dubbio spericolato per la distanza che li separa, anche se nell’eterno ritorno delle cose e della poesia una giustificazione in più si può trovare.

Tutto è nato in modo casuale, e tuttavia suggestivo. Mentre lavoravo a Roma con il regista Gianni Barcelloni al montaggio di un filmato sulla vita e le opere di Pier Paolo Pasolini, nell’estate del 1998, mi capitò di tornare alla mia antica passione per Caravaggio. L’occasione fu la commemorazione della morte di Caravaggio che sempre si ripete a Porto Ercole, dove vado in vacanza, ogni 18 luglio. Quell’anno ne parlava Marco Bona Castellotti di cui era appena uscito Il paradosso di Caravaggio. Sempre, in queste serate appassionate e popolari, ormai tradizionali, si aggiungono studi e dettagli e risultati delle più varie ricerche per precisare i contorni di quella morte e degli ultimi misteriosi giorni di vita. Una morte avvenuta, pare, sulla spiaggia di Porto Ercole, che apparteneva in quel 1610 allo Stato dei Presidi, appena ai confini dello Stato pontificio da cui il pittore era fuggito, in attesa della grazia e della via libera per Roma. Morì di malaria, ma qualcuno azzardò ucciso da qualche inseguitore, forse quando già il perdono era arrivato. Certamente morì lontano da riflettori e da palazzi, lui che era il più grande artista del suo tempo, solo, come accade a molti uomini semplici.

Allora la somiglianza tra i due artisti, Caravaggio e Pasolini, figure tragiche nell’estremità della loro vita, e grandi realisti nelle loro opere, mi parve sorprendente. Una somiglianza che già era stata azzardata da altri, a cominciare da Federico Zeri.

Al di là del loro tempo così diverso e lontano, furono entrambi artisti di un tempo di crisi, sul crinale che separa una vecchia era da una nuova sul punto di nascere. Con evidenti e fondamentali differenze: Caravaggio ancora grande classico, l’ultimo straordinario classico della tradizione, come Tasso lo era stato nella poesia; Pasolini poeta novecentesco con il sentimento dell’antico e il senso tragico della modernità, non immune dall’ideologia, ostaggio del suo tempo quando perde la forma e la lingua.

Nella vita furono entrambi grandi interpreti del loro tempo, anche se l’eccellenza assoluta dell’arte caravaggesca non è neppure paragonabile a quella pasoliniana spesso informale e prolissa, senza misura. Entrambi tuttavia furono nella vita figure smisurate rispetto al loro tempo. Artisti entrambi irregolari, se non proprio eretici, dal temperamento irruente e non alieno dallo scandalo, perfino coinvolti in inchieste giudiziarie e perseguitati dalle incomprensioni, alle prese con la “grande guerra santa”, come islamici e indù definiscono il percorso interiore e spirituale degli uomini. Perché controcorrente lo furono certamente entrambi, e forse anche peccatori, come tante figure bibliche, da Abramo a Mosè. Nei loro visi segnati e nervosi era già segnato un destino.

Li unisce tuttavia quella povera, misteriosa morte consumata su un litorale, davanti all’orizzonte del mare, con l’ultima rivelazione vissuta non in un letto, ma nella natura, loro che avevano voluto come maestra la natura. Non in pace, ma in guerra, perché in guerra si era consumata la loro vita. E tuttavia una morte semplice e reale come la morte di un uomo qualsiasi, un evento molto umano e non tragico, nonostante le tante interpretazioni che ne sono derivate. E neppure emblema o celebrazione di una morte dell’arte, ma soltanto di una vita torturata e intrepida conclusa prima del tempo naturale.

Caravaggio muore non lontano da Roma e in terra toscana, vicino al Mar Tirreno, perseguitato e inseguito come un delinquente, martire come già deve essersi sentito quando si era dipinto così vicino a Orsola che si avvia al martirio. Ha trentasette anni, come il divino Raffaello, poco più dei canonici trentatrè anni di Cristo, ma nasce alla vita vera nella memoria degli uomini, come quel raggio di luce che aveva fatto entrare nell’oscurità di una stanza con un senso di redenzione.

Anche Pasolini muore vicino a Roma, davanti allo stesso mare, alla foce del Tevere presso Ostia, nome che sa di agnello sacrificale, dove andavano in un lontano passato le anime salve e dove Agostino aveva perso la madre Monica. Quando Pasolini muore, nel 1975, lui, “più moderno d’ogni moderno”, sigilla la chiusura di un’epoca e di un secolo, ben prima del reale compimento cronologico. Assiste a tutti i rammodernamenti cruciali della sua epoca: il 1963 nella letteratura, il 1965 nella liturgia ecclesiastica con l’abolizione del latino, il 1968 nella politica; vede la decadenza e il crollo spirituale del mondo conosciuto nell’infanzia e anche lui si adegua e spinge il pedale della protesta che in quel decennio appariva come il primo dovere etico dell’uomo.

Entrambi chiudono un’epoca, con la drammaticità che questo comporta. Caravaggio l’epoca classica dell’arte, come qualche anno prima Torquato Tasso, sepolto in cima al Gianicolo, aveva chiuso la grande stagione della poesia italiana. Pasolini chiude l’epoca della modernità e un secolo. E forse per questo furono entrambi sfregiati, perfino nel fisico.

Caravaggio e Pasolini sanno che devono scendere lungo l’Italia, andare dal nord dove sono nati verso il sud, essere sempre più naturali. Vanno a Roma, con lo stesso desiderio di fratellanza con le persone del popolo, con lo stesso furore e disperata vitalità, la stessa fretta di depositare il loro lavoro e di trovare una lingua.

Quando Caravaggio arriva a Roma, si sta chiudendo la cupola di San Pietro, il ricordo dell’altro Michelangelo è vivissimo e la città si sta riempiendo di angeli nelle chiese e nelle vie. Le figure d’adolescenti, i garzoni d’osteria e i ragazzi di strada e di vita che incontra tra un’osteria e un ponte, tra uno scontro e una sassaiola, sempre tra San Luigi dei Francesi e Trastevere, sono gli stessi dei quadri. Sono ragazzi belli e gagliardi anche se già minacciati dall’ombra e dalla malattia, come il Fruttaiolo e il San Giovanni Battista, dipinti come fossero veri e non come fossero belli. Sono figure vere, popolane bellissime e donne sfatte del rione, come la Madonna morta e gonfia d’acqua o la stupefacente Madonna davanti alla quale si genuflettono pellegrini miseri che da poco sono arrivati a Roma per il grande Giubileo del 1600, stupiti da quella concretissima visione.

Quando Pasolini arriva a Roma, nel gennaio del 1950, in pieno Giubileo, scopre, accanto alla Roma delle cupole e del Tevere, la Roma delle baracche e dei poveri che parlano in romanesco, con i ragazzi pieni di allegria e di una vita violenta, tra Ponte Mammolo e la Garbatella, ragazzi belli come i giovani caravaggeschi che suonano o che hanno tra le mani cesti di frutta. Allievo di Roberto Longhi, Pasolini, che si traveste cinematograficamente da Giotto, con gli stessi abiti e la fascia bianca sulla fronte, li aveva già visti quei ragazzi nella Fucina di Vulcano dipinta da Velázquez, che nel suo soggiorno romano aveva preso dalle borgate romane i suoi modelli.

Tuttavia Roma da sola non li sazia, entrambi cercano il sud greco e mediterraneo, l’Africa e il fondamento di Roma nell’Africa, come altri avevano fatto, a cominciare da Petrarca e poi Rimbaud. Caravaggio scende a Napoli, si ferma nel luogo dove sono accolti poveri e infermi, nel cuore di Spaccanapoli; va verso terre arabe e greche in Sicilia, e si spinge fino a Malta. Pasolini cerca in Africa quello che non trova più nella vecchia Europa e lì sposta anche la rapprsentazioneOrestiadi.

È in Africa che era nata, prima ancora che a Gerusalemme, l’idea egiziana di una vita vera tramite l’assimilazione a un dio sofferente. E le loro opere prendono la direzione del sud mediterraneo, là dove l’umanità è più dimessa e diseredata, dove Roma si è allargata comprendendolo. La redenzione, la luce nell’ombra, forse potranno trovarla laggiù, lontano dal centro.

Il miracoloso percorso di Caravaggio, dall’empirismo nordico all’umanità popolare del sud, non può ripetersi con Pasolini, figlio del suo tempo, che cerca nel sud un mito ancora romantico e improbabile, lontano dal grande e autentico meridione greco caravaggesco.

Tuttavia l’essenza cristologica del loro lavoro è innegabile. La croce è il segno presente nell’opera di entrambi. Soffrire è la condizione per pervenire alla realtà e la croce è la via centrale. Croce come simbolo cosmogonico, dove l’asse verticale e l’asse orizzontale del mondo, incrociate e insieme abbracciate, indicano le direzioni dello spazio, e croce come espressione di dolore e tormento di vita, ma anche via di salvezza. Già presso gli egiziani, prima ancora che tra i cristiani dei primi secoli, la croce era un geroglifico con il significato della salvezza. Anche Prometeo era stato crocifisso perché aveva rubato al dio e donato agli uomini il fuoco spirituale. La croce è una bilancia tra il cielo e la terra, tra il corpo e l’anima, nello stesso tempo via di virtù e via di peccato. Emblema di unione e separazione dei contrari, la croce è il punto d’appoggio di Caravaggio e Pasolini. Inchiodati alla croce, non ne possono più, eppure continuano a portare la croce di un tempo che è ormai entrato nel cono d’ombra della crisi spirituale.

Pasolini scrive poesie in forma di croce e si fa fotografare con i polsi legati a una croce; filma la Passione di Matteo dove Cristo sulla croce ha ai suoi piedi la madre somigliante a “la donna de paradiso” di Jacopone, uno “stabat mater” dove c’è già l’annuncio di un destino di sofferenza; inquadra Accattone sul letto di morte come nell’infiammata Crocifissione del Masaccio. E, ancora, Pasolini, esperto d’arte e innamorato, indica a Ninetto Davoli, come ci appare in una fotografia, gli affreschi della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco ad Arezzo. Forse non lo ha mai lasciato il ricordo della chiesetta di Santa Croce affrescata con immagini della croce, costruita dagli abitanti di Casarsa sfuggiti al massacro dei turchi, dove ha già visto il pianto della madre davanti alla bara del fratello Guido.

Caravaggio dipinge Paolo che, sul punto di convertirsi, giace a terra tra i finimenti e le redini del cavallo, folgorato con le braccia e le gambe aperte nel segno della croce a X. E dipinge Pietro a testa in giù sulla croce rovesciata rivolta alla terra invece che al cielo, con gli occhi calmi volti alla calcara dell Gianicolo, detto Montorio, a formare con il suo corpo sulla croce solo un’asse di una croce più grande, in cui l’altra asse è formata dalla schiena e dalle gambe sporche di poveri uomini affaticati che dovrebbero essere gli aguzzini. E dipinge, ancora, Andrea nell’istante in cui, legato alla croce, sta trapassando dalla vita alla morte e Francesco inginocchiato sulla povera croce intagliata da un falegname del convento. Dietro il miraggio di una “croce di obbedienza”, Caravaggio si spinge fino a Malta.

Entrambi ritraggono la caduta e contemplano la redenzione, con gli oggetti tra la luce e l’ombra, nel graduale passaggio dal peccato all’illuminazione. Perché entrambi vivono con la croce e la spada. Caravaggio andava in giro con la spada al fianco o accompagnato da un ragazzo che gliela portava. Pasolini seguiva quanto Gesù aveva annunciato: “Sono venuto per portare la spada e non la pace”, come gli fa dire nel suo film sul Vangelo di Matteo. Ma hanno impugnato la spada con l’elsa a forma di croce.

Il nostro pellegrinare nella storia umana è l’andare dell’Occidente fino al Golgota e alla Croce. Quanti poeti e pittori sono andati contro il vuoto e la maniera, hanno percorso la strada che dalla maniera conduce all’umanità, quanti hanno visto quella croce! Gli uomini di Lorca sono fermi al labirinto delle croci, nell'“encrucijada”, o sono nel cimitero di Pascoli, nel “borgo alle croci” che fa rima con voci. Anche l’ateo Leopardi descrive l’uomo cristiano che prende la croce, cadendo sotto di essa, risorgendo sempre con essa. Come il vecchierello di Petrarca che viene a Roma per il Giubileo, stanco sotto il peso di quella croce che è per tutti il tempo che ci rimane da vivere. In un’altra poesia, Petrarca si rivolge un venerdì santo al Padre del cielo: “ramenta lor come oggi fusti in croce”.

E quanti hanno portato quella croce dentro il proprio nome! Giovanni della Croce con le sue candide strofe in cui l’anima dialoga con Dio mentre è rinchiuso nel buio carcere conventuale di Toledo; e Paolo della Croce che trova oasi di meditazione per i passionisti tra gli ulivi del Monte Argentario o i boschi del Monte Fogliano che pende su Vetralla; e ancora Edith Stein, ex assistente di Husserl, divenuta carmelitana con il nome di Theresia a Cruce, prima di concludere il cammino terreno con il supplizio in un campo di concentramento. E la stessa Cristina Campo che vuole imprimere nel suo nome d’arte l’emblema della passione.

“Bisogna sradicarsi. Tagliare l’albero e farne una croce; e poi portarla tutti i giorni”, scrive Simone Weil. Non fare resistenza.

 

 

(Tratto da: Gabriella Sica, Sia dato credito all’invisibile. Prose e saggi, Marsilio editore, Venezia, 2000)


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