L’invenzione della cultura, del suo concetto e della sua pratica pubblica, è una delle più affascinanti avventure dell’uomo.
Mentre la cultura evoca altrove una generosa apertura intellettuale e il futuro, in Italia lo scontro frontale tra due partiti in perenne conflitto – quello di una religione inattuale del patrimonio e quello della svendita sul mercato dei beni culturali – tiene in ostaggio la più importante infrastruttura per crescita civile ed economica del paese.
Parlando di attualità, apparsa in questi giorni alle cronache, la speculazione finanziaria attuata intorno all’acquisto di un castello storico per poi rivenderlo al suo valore qualche tempo dopo, mettendosi in tasca la differenza, è prassi di indifferenza morale, attorno ai beni architettonici o ambientali, attuata, spesso, da enti religiosi. Un affare ottenuto grazie a una serie di reati che vanno dal falso alla truffa, passando per l’appropriazione indebita, la turbata libertà degli incanti e l’associazione per delinquere. Accuse che, a vario titolo, la procura di Terni contesta a dieci indagati, tra i quali anche l’ex vescovo della diocesi di Narni, Terni ed Amelia, Vincenzo Paglia, oggi presidente del Pontificio consiglio per la famiglia. E poi a una serie di altre persone della diocesi, come il presidente dell’istituto diocesano per il sostentamento del clero e il vicario episcopale della diocesi. E, in più, l’ex sindaco di Narni, Stefano Bigaroni. Una storia che risale a circa quattro anni fa che riguarda il castello di San Girolamo di Narni, edificio storico venduto all’asta. Un’asta che, come hanno ricostruito i finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria fu completamente illecita. Nell’avviso di chiusura indagini che i finanzieri guidati dal generale Giuseppe Bottillo hanno recapitato agli indagati, ci sono diversi episodi che testimoniano come quell’assegnazione fosse fuori legge. Innanzitutto perché il castello fu venduto a circa un terzo del suo valore: acquistato dalla Imi Srl (società comunque vicina alla curia perché l’amministratore era l’economo della diocesi, Paolo Zamppelli, e uno dei soci direttore dell’ufficio tecnico, Luca Galletti) a 1.760.00 euro contro una stima di oltre 5.600.000 e con denaro della curia.
Vengono riportati episodi di induzione in errore della Giunta comunale grazie a una serie di false informazioni, depositi oltre il termine, false comunicazioni di ogni tipo per cercare di garantire comunque quella cessione. Tutti elementi che fanno concludere al pm che Imi Srl, acquirente del Castello (che non a caso ancora oggi è di proprietà della diocesi al centro di un crack finanziario da 25 milioni di euro), non avesse «i requisiti necessari» nemmeno per partecipare alla gara d’appalto. E non avesse nemmeno il denaro per comprare quel pregiato immobile: i soldi per l’acquisto sono arrivati nelle casse dell’Imi con bonifico fatto direttamente dalla Curia.
Di questo caso, molte sono le affinità con la sparizione, da parte della diocesi estense, di Casa Cini a Ferrara nel suo ruolo di Istituto di cultura, trasformata in edificio per affittanze di ogni tipo… (per un anno è stata affittata ai grillini, poi ai farmacisti, ai bancari, ecc. il tutto cacciando i molti giovani che frequentavano quel luogo per lo studio e la ricerca.)
La società che si è apprestata ad intervenire pesantemente sul ‘restauro’ ha creato solo ipotesi di ‘lucro’, deturpando gli spazi architettonici, e non potendo acquistare l’immobile perché vincolato alla diocesi come dono del conte Vittorio Cini, tutti i proventi degli ambienti affittati sono devoluti a questa società di imprenditori immobiliari (?), guidata da un mediatore segnalato anche dalla stampa locale, individuo senza alcuno scrupolo e senza alcun titolo professione se non quello di mediatore a tempo pieno.
Casa Cini con questo ‘stupro’ architettonico ha perso la sua identità di Centro Culturale: biblioteca e Museo come era stata in origine, prima con i Gesuiti poi con don Franco Patruno e don Francesco Forini, ma soprattutto come luogo di ‘solidarietà’ e ‘accoglienza’. Casa Cini, con la dinamica e generosa gestione di don Franco Patruno, è stata un momento di grande ricerca, uno sguardo pieno di fiducia e di amore, per un progetto carico di futuro, interrotto da una violenza, priva di senso umano, desiderosa di distruggere un «patrimonio» colmo di cultura.
Il patrimonio non è un’entità amministrativa, né una categoria economica: è l’eredità di generazioni che ci hanno preceduti. La distruzione di decenni di ricerca, di biblioteche, di opere d’arte a Casa Cini è stato lo sventramento di un «universo carico di storia». Così, parlando di patrimonio parliamo di cittadinanza, di sovranità popolare, di uno Stato inteso come comunità.
La conservazione dell’ambiente e del patrimonio culturale e la riattivazione della loro funzione civile, parlando in senso più ontologico, è naturalmente anche una grande questione economica. Una questione che finora è stata declinata in termini di economia di rendita, di sfruttamento, di rapina. Ma che potrebbe invece diventare il cuore di una nuova economia civile, il progetto di un paese che smetta di divorare se stesso e riprenda a investire sul proprio futuro, non a scommettere sulla propria fine.
Lo dimostrano le parole di Vasari, contenute nel terzo libro delle Vite quando, salutando il mecenatismo di Lorenzo il Magnifico, afferma che «chi aiuta, e favorisce nell’alte imprese i belli, e pellegrini ingegni, da e’ quali riceve il mondo tanta bellezza, honore, comodo, e utile, merita di vivere eternamente per fama negli intelletti degl’huomini».
È proprio dall’idea di una cultura come elemento di sviluppo, anche economico, che la tradizione statunitense ha perpetuato le idee nate nella Firenze rinascimentale. Quelle di una modernità competitiva in cui la conquistata consapevolezza dei limiti biologici che inquinano negativamente i rapporti sociali, libera i singoli, aiuta l’innovazione e permette un approccio creativo al mondo, favorendo le identità progettuali. Don Franco Patruno apriva le sue biblioteche a tutti, le porte di Casa Cini per visitare le mostre, ascoltare i concerti perché questi fossero uditi da tutti. La musica interpretata dai giovani nel cortile della Casa Medioevale del conte Cini si spandeva perché musici cittadini suonavano per altri cittadini, suonavano per la polis. Tutto ciò, non per rimuovere le difficoltà della vita, dell’esistenza, ma per affrontarle tutti insieme, con gioia, uniti nella musica e per assaporare i colori dell’arte e il profumo dei libri.
E da questo spirito di grande apertura solidale che la scena politica e la chiesa dei ‘castelli svenduti’, delle ‘donazioni calpestate’, dovrebbe essere capace di ripartire. Perché le nostre città, i nostri musei, il nostro paesaggio non contengono solo cose belle: contengono valori e prospettive che possono liberarci, innalzarci, renderci di nuovo umani, restituirci un’idea dell’uomo e un’idea di comunità che ci permettono di costruire un futuro diverso, un futuro colmo di solidarietà, tanto caro a don Lorenzo Milani che troppo presto se n’è andato.
Maria Paola Forlani