Esistono momenti che scorrono nel tempo senza appartenergli, momenti di estrema sensibilità e di particolare percezione che ci posseggono senza lasciarsi apparentemente esprimere da noi. Questi momenti privilegiati è come se ci penetrassero e nell'attesa si facessero memoria, e di attesa vivessero. Pur essendo nati nel passato essi non appartengono ad un tempo particolare, appartengono semplicemente a chi li vive e a quell'attimo che saprà aprirsi per raccoglierli, un attimo che può essere adesso (un “adesso” poetante)... o mai. Non si sa come né quando, ma sicuramente questi momenti torneranno a frangere la membrana dei tempi per “divenire”, perché è come se in quel primitivo “essere” non avessero trovato abbastanza spazio per “stare”, è come se avessero bisogno di un altro presente da rivivere per, questa volta sì, accordarsi al ritmo di una vita.
Per cui ecco quell'attimo vissuto in qualche punto del tempo e dello spazio irrompere dall'attesa per mostrarsi nuovamente presente pur essendo passato, per farsi attimo in divenire senza mai “stare”, cioè arte; e “arte” soprattutto quando quello spazio che non trovavano, quello spazio immaturo e non ancora pronto adesso lo scoprissero nell'infinita dimensione di una tela, o nei profondi abissi del marmo, o nelle musicali tinte di un verso,...
In un artista visivo questi momenti si traducono in immagini, riflessi o voli lungo il vissuto che attraverso il tempo affiorano dalla sua sensibilità per urgentemente prender forma, per uscire dall'interiorità gestante e finalmente esprimersi nel dialogo con il mondo. Ed è Congdon, riguardo a questa gestazione dell'immagine, a scrivere che:
L'immagine, dopo il periodo della gravidanza, secondo la scadenza stabilita dal mistero, nasce da me, si incarna come quadro nel mio atto di dipingere-intatto-di un sol pezzo (come l'insieme che avevo colto nel vedere, la prima volta).1
Vorrei così iniziare da dove la creazione di Congdon trova lo spazio per concretizzarsi, da dove l'«immagine che attende di nascere quadro»2 nasce infine come quadro; vorrei cioè partire con la mia indagine da quel pannello nero che l'artista sceglie per le sue opere, che si frappone tra l'occhio e l'immagine come fosse palpebra abbassata, e poi d'un tratto spalancata nel primo gesto finalmente libero per l'esser giunto ora, e solo ora, all'appuntamento con lo sguardo.
E pensando a un movimento nel tempo dell'immagine passata in un presente che si fa quadro, pensando a quell'immagine che colpisce lo sguardo (uno “sguardo” qui inteso come strumento primario di esperienza per l'artista, strumento attraverso il quale egli vive il suo “essere nel mondo”) in attesa del giusto respiro per farsi aura, per poi scagliarsi con la furia di un crescere da troppo contenuto e quindi riversarsi con la potenza di un gesto che, nel suo breve e reale tragitto, si dilata lungo gli innumerevoli attimi dell'esperienza passata fusi dalla memoria in un solo grande, immenso attimo, quello che finalmente si rivela sulla superficie da dipingere; pensando a questo movimento che va, in tempi diversi con “durate” differenti, dall'immagine allo sguardo e dallo sguardo al quadro come fosse l'immagine composta da mille concreti elementi, da mille afferrabili sensazioni, mille particelle, pensando a questo ricorrono alla mente i colori che Platone dipinge nel suo Timeo, laddove li descrive come «fiamma che esce dai singoli corpi e ha particelle così proporzionate al fuoco visuale da produrre la sensazione».3
Secondo Platone queste particelle possono essere conseguentemente di tre tipi: più grandi, più piccole ed eguali a quel fuoco visuale che risulta in tal modo essere il contenitore, o il bersaglio, della sensazione “colore”. Quelle eguali al fuoco visuale sono trasparenti in quanto, adeguandosi al contenitore, non generano sensazioni, invece quelle grandi e quelle piccole, contraendo e dilatando il fuoco visuale, danno l'impressione dello scuro e del chiaro: per questa ragione Platone poi definisce il bianco come ciò che dilata il fuoco visuale, e nero come ciò che lo contrae.
Limitata però a questa osservazione la disquisizione sui colori, e cioè catalogando i colori solo per una tonalità probabilmente constatata nel restringersi o nell'allargarsi della pupilla a seconda della luce, e quindi confusa alla luminosità, se ne deduce allora che per Platone il bianco è la luce, il nero è la tenebra, essendo essi la causa dello “schiarire” oppure dello “scurire” i colori; supposizione che imperverserà (come vedremo, anche se gli altri saranno ben consapevoli della differenza fra luminosità e tonalità, per cui la tonalità di un colore è il suo essere più chiaro o più scuro rispetto ad un altro, e la luminosità è la sua capacità nel diffondere in un certo senso “luce”, una luminosità dunque da non confondersi con la chiarezza: può esistere un blu notte luminoso senza essere chiaro, come può esistere un giallo chiaro senza essere luminoso; riguardo a questo, la tonalità è un valore relativo, la luminosità è invece un valore assoluto) supposizione, si diceva, che imperverserà su quanti penseranno attorno al colore, ritenendo il bianco ed il nero non appartenenti alla categoria “colore”, ma come elementi determinanti esclusivamente la tonalità di questi.
A tale considerazione è sicuramente legato chi, più di ogni altro, amò l'elemento cromatico all'interno del quadro, e ne fu consapevole tanto da scrivere pagine di estrema sensibilità su quel Romanticismo francese che portò alla ribalta e consolidò definitivamente la supremazia del colore sul disegno nell'opera pittorica: Charles Baudelaire,4 e questo è importante, perché anche quando il colore gridò attraverso l'artista la sua essenzialità, lo fece attraverso il giallo l'azzurro ed il rosso, e non attraverso il bianco ed il nero, così esclusi da questa rivoluzione per restare solo dei gregari e spesso pure indesiderati nella tavolozza.
Ma il colore, per quanto già con Giorgione e Tiziano acquisti un valore superiore al disegno nella tela, non è ancora inteso come valore assoluto, come avverte Gillo Dorfles,5 il quale definisce questo nuovo uso del colore tonale in quanto esso si accorda all'imitazione paesaggistica del reale, e solo dalla fine del XIX secolo lo studioso avverte un uso timbrico del colore: ciò avviene quando la cromaticità fa vivere il colore di per sé, essendo se stesso l'unica propria ragion d'essere. E questo almeno fino all'astrattismo geometrico.
Ma anche dopo il tramonto dell'astrattismo geometrico, il colore ha continuato a rimanere “timbrico”. Anche nelle arruffate matasse tachiste, anche nelle composizioni “informali” o “d'azione”, il colore continua ad assolvere la sua funzione di protagonista del dipinto (e non più di succube d'una paesaggistica tonalità), con la differenza che i ricchi impasti, le frammentazioni di materiali diversi, le sgocciolature, le incrostazioni, arrivano talvolta a creare una nuova “atmosfera”, non più naturalistica, ma tuttavia più prossima al tonalismo di quanto non fosse quella fauves e dei successivi movimenti astratti.6
Non si sarebbero potute scrivere parole più adatte per introdurre l'uso del colore in William Congdon soprattutto fino ai primissimi inizi di questi anni Ottanta, quando un impulso “naturalistico” (a dire il vero venuto mai meno, e comunque inteso nel suo senso più ampio) segna il ritmo di quel suo vorace peregrinare.
Il colore, in questi casi, è vissuto pure con delicata eco “paesaggistica” anche se è il paesaggio quasi ad accordarsi alle urgenze di un colore che è comunque colore-forma: un colore inseguito nella sua trasgredita bidimensionalità (che pur rimane bidimensionalità) a opera di graffi, di segni, di tessuti cromatici in un certo qual senso orientali, in un certo qual modo mozarabici, un colore, dicevo, tutto teso a “formare” la forma.
Vale la pena forse di far notare un curioso ribaltamento delle priorità classiche, se per classico adesso restrittivamente intendiamo la sequenza temporale sulla tela del disegno prima e del colore poi. Infatti, pare quasi che il colore una volta steso sulla superficie attenda ancora lo spigolo della spatola per definirsi come disegno, da qui allora quei tessuti, quegli “arabeschi” appena nominati.
A parte ciò, confrontando il Congdon “esterno” (quello paesaggistico, per intenderei) all'ultimissimo Congdon “interno”, penso ai due libri che il cristiano medievale doveva consultare per raggiungere la propria finalità: la conoscenza di Dio. Il primo è il libro della natura, attraverso cui Dio si rivela come Creatore, e il secondo è il libro più importante del deserto nella cui vacuità e assenza di segni l'uomo rimane dentro al “se stesso-Tempio” e, quindi, comprende Dio attraverso la sua estrema creazione, l'uomo-immagine di Dio: se stesso, appunto (di libri ce ne sarebbe un terzo, la Sacra Scrittura, libro offerto all'uomo perché non più in grado di leggere e di intendere gli altri due, metaforicamente anch'esso presente, mi pare, nell'opera di Congdon, e precisamente nel periodo assisiate, con le esplicite figurazioni religiose; indagare più in profondità queste problematiche trascende comunque il mio compito).
Per questo il colore in Congdon è un colore in ogni caso violato come tale, un colore che è immagine interiorizzata e lì ricercata, un colore che esce dal suo senso specificatamente fisico per acquisire significati puramente artistici, e direi forse epifanici.
Devo uccidere il colore in sé, e la materialità del colore (il colore del tubetto, insomma), perché esso diventi il colore nuovo, colore il cui nome non è più quello della sua convenzionale materialità, ma 'colore'-'luce'-'vita'.7
Per cui ecco un colore che, trascendendo la sua sostanza, si evidenzia come essenza, come luce, e quindi platonicamente come bianco, come l'insieme fisico di tutti i colori che, rifratti, ritornano così nel mondo, nella vita, in antitesi dunque con la tenebra, la non-luce, la non-vita: il nero dei pannelli di Congdon. In altre parole, se il bianco e il nero non vengono generalmente considerati colori (a parte la felice intuizione di Vincent van Gogh,8 tuttavia) e il bianco è considerato luce, con tutta la potenziale simbologia che questo comporta, allora il nero è generalmente ritenuto tenebra, oppure una «nullità solitaria e insignificante».9
La fama nefasta del nero è antica quanto l'uomo, e almeno fino al tramonto della paganità esso è considerato un colore di sicura disgrazia; solo con il crescere della cristianità esso diventa il colore della sobrietà di costume divenendo sia il colore della veste sacerdotale sia del lutto, quest'ultima funzione rubata al bianco (nel frattempo colore della purezza) per quel suo nuovo significato, appunto, di temperanza anche nella morte. Nonostante ciò non perse quella sua reale, ma pure psicologica, aria tenebrosa. Comunque sia, in Philipp Otto Runge possiamo trovare estremizzate e riassunte quelle idee che da Platone si sono evolute sino a noi.
Dai sopraddetti tre colori [giallo, rosso, azzurro] teniamo separati il bianco e il nero, che disponiamo in una classe in certo modo opposta, e ciò perché il bianco e il nero non solo designano già nella nostra rappresentazione, presi per sé, l'opposizione tra chiaro e scuro, tra luce e tenebra, ma anche perché nella loro mescolanza con i colori e le loro mescolanze rappresentano il più chiaro e il più scuro in generale, con una maggiore o minore tendenza verso il bianco e il nero.10
Il nero ha sicuramente valenze negative anche per Congdon, se egli arriva a scrivere che «La Città Nera è nera per nessun altro motivo se non quello del terrore ...»,11 dimostrando in tal modo l'esistenza di quella dimensione anche psicologica del colore cos“ ben intuita da Ludwig Wittgenstein.12
Ma un conto è usare il nero come colore, e un conto è usarlo come universo-tenebra o sguardo-vuoto prima della vita, prima della luce simbolica dei colori che mai però riuscirà a coprire quella profonda nullità, perché anche quando il nero è pannello non lo si ignora, in quanto nel festoso gioco dei colori esso, il nero, trova spazio per se stesso, per sopravvivere, per vivere quella vita della quale è assenza, e mai negazione. In Verso Primavera (Janua Coeli, 1985) il nero del pannello non è totalmente negato, oppure esposto come parte del dipinto. Il nero non prorompe per la pastosità del colore sovrapposto in un unico gesto, ma è come se trasparisse dal velo sottile del grigio che incornicia illuminando la stesura quasi uniforme e verticale di quel morbido viola, ancora sovrapposto ma stavolta allo stesso grigio che s'intuisce sotto, e che ha l'aria di farne parte.
Il verde pastello, più materico, ultima la visione dell'opera ponendosi in basso: è la terra, la primavera e quindi l'apertura alla luce prima che questa si accenda, è il processo di vita che canta già la sua futura invasione contenuta appena da quell'intervento azzurro (sul quale ritorneremo) che nel colore ancora fresco acquista valenze di un verde più scuro e delimitante. E non importa se l'artista abbia davvero usato l'azzurro o una tonalità differente di verde, la si conosce la composizione dei colori, i pigmenti fondamentali per la variazione dei toni, quel che importa è quell'arricchimento di azzurro o l'azzurro stesso che Congdon usa spesso come linea di supporto fra due masse, che in tal modo si invadono, si compenetrano, si evidenziano nella composizione reciproca della forma. Ma è quella discreta compressione verso i margini esterni del grigio ciò che qui interessa, e che si impone come emanazione luminosa del violetto che probabilmente negherà il grigio come la luce crescendo schiaccia la penombra; accadrà prima che il verde più sotto abbia invaso il resto chiudendo così nel presente la speranza, che è tale solo perché sempre futura, in tensione, come d'altronde lo stesso titolo, Verso Primavera, già suggerisce; una speranza che giustamente svanirà non appena avrà raggiunto la sua meta, portando via con sé le vibrazioni dell'attesa, discrete e felici, rimaste per“ nel quadro di Congdon.
È il grigio a contenere, a irradiare, è lui a velare il segreto, e ci interessa del grigio quel suo delicato domare la tenace caparbietà del nero, come se ad una prima totale invasione poi avesse deciso di assottigliarsi appannando se stesso sul nero, e la spatola cioè avesse aggiunto per poi togliere.
Non è come, ad esempio, Stella Mattutina, perché qui la pastosità del colore, benché composta dalla esilità del grigio, nega completamente l'oscurità del fondo che Congdon solo vide e invase. In questo caso è proprio il canto sicuro e dilagante di Venere, la stella del mattino, a preparare dolcemente ma inesorabilmente il giorno alla luce; e luce sarà, proprio attraverso quel grigio che può dirsi un nero (la tenebra) al quale l'inevitabile bianco (la luce) sottrae oscurità, aggiunge chiarore.
In altri quadri il nero non è domato né negato, la lotta è ancora aperta, come Finestra, dove la spatolata si esaurisce su alcune zone in un solo ruvido gesto, e questo risulta come se avesse urtato contro l'oscurità, e il nero non avesse concesso la sua resa ribadendo un'esistenza che, seppur “in assenza”, è tuttavia esistente.
A volte addirittura Congdon non osa nemmeno tentarne un'invasione, come per il nero nella zona bassa ancora di Finestra 1 che rimane quello del pannello, ma ne recinta l'oscurità, la nullità dell'istante prima della creazione attraverso il colore intermedio, il blu della notte che non è oscurità ma attesa di luce, metafora di morte, che non è “fine”, piuttosto è trapasso.
Bisogna notare il diverso spessore simbolico, a questo punto, di un nero aggiunto al pannello (come i quadri anteriori all'ottanta) e di un nero che è pannello fattosi massa cromatica. Nel primo caso il nero è colore e basta, è aggiunta di se stesso, rilievo materico; nel secondo caso esso diventa anche colore ma lo diventa passivamente, grazie all'aggiunta di altre masse cromatiche che lo contornano, ed è massa cromatica per negazione in quanto resta pur sempre vacuità, ciò che sta sotto il colore e che il colore non ha voluto, o non ha potuto, invadere; un nero che non è più rilievo materico, ma profondità.
In tal modo il nero è sempre sfondo, anche quando si presenta come massa cromatica esso emerge dalla profondità del pannello pur senza affiorare come colore. Un nero, lo abbiamo visto, che può essere massa oppure linea, per questo conviene ricordare Kandinsky quando scrisse che «in realtà il colore senza forma non può esistere».13
Il nero del pannello è però un colore senza forma in Congdon, anzi, neppure è colore, piuttosto è tenebra-informe; ma nel momento in cui intervengono i colori ciascuno come colore-forma, anche il nero passivamente si fa colore-forma oppure, addirittura, colore-linea, diverso comunque dall'azzurro che più spesso è un colore-segno.
In questa sua multi-formità il nero non solamente muta la sua struttura pittorica all'interno del quadro, ma muta anche la sua funzione espressiva: come colore-forma esso viene come ingoiato dagli altri colori, si innesta cioè un processo di affondamento del nero e di sua compressione, e se a ciò va aggiunta quella sua levigatezza materica che è in definitiva mancanza di pastosità, oppure di un “tutt'altro che tattile”, se ne ottiene un'impressione contrastante di presenza atemporale, di un prima che fosse, e di una assenza spaziale, di un comunque inesistente; come colore-linea invece serve a sottolineare la bidimensionalità del quadro, a segnare i ritmi e i limiti della spatola, ma pure a sospendere le varie masse cromatiche nel vuoto, in fondi ma non disperati abissi, come se fluttuassero su qualche arcana aria e stessero ancora cercando il loro definitivo assetto, forse neppure mai definitivo.
Ne risulta così un nero che nel suo progressivo cedere il mondo ai colori (alla luce) diviene qualcosa di più, acquista significati che trascendono la superficie da dipingere quando su questa inizia la danza di:
colori che mai si chiudono o soffocano il poroso nero del fondo che ovunque respira come l'ossigeno del quadro: respiro e allo stesso tempo densità. La mia pittura è essenzialmente bidimensionale, la terza dimensione è implicita-come respiro, come apertura-in questa porosità di nero, anche come implicita densità, o terza dimensione dello spirito.14
Si è parlato dell'azzurro come colore-segno, e questa definizione fu data soprattutto per quella sua funzione appunto di segno nei quadri di Congdon, dal momento che è con l'azzurro che l'artista ama domare il nero, disegnando quelle forme che poi diverranno colore-forma. In tal modo l'azzurro si suggerisce come ovvio trapasso di due componenti di uno stesso momento, quando dalla memoria (dalla gravidanza) il segno partorisce la forma che il nero non nascondeva, ma semplicemente custodiva; e quel segno azzurro non viene cancellato, rimane con quella sua discrezione a volte difficile da cogliere, ma indispensabile nella percezione unitaria del tutto.
Ma perché proprio l'azzurro? Scrive il Goethe:
... la nascita di un colore richiede luce e oscurità, chiaro e scuro, oppure, con un'altra formula più generale, luce e non-luce. Vicinissimo alla luce nasce un colore che chiamiamo giallo, vicinissimo all'oscurità sorge invece quanto designamo con l'espressione azzurro.15
Se avesse scelto altri colori, il risultato non sarebbe stato ovviamente lo stesso, e neppure il significato del nero perché da questi avrebbe ottenuto dell'altro. Non avrebbe mai potuto scegliere il giallo, il colore più prossimo alla luce, perché il nero è tenebra e il giallo lo avrebbe violentato, non sarebbe riuscito a dialogare con il pannello per rievocare la forma, e questa l'avrebbe strappata, non lasciata emergere delicatamente, dolcemente seppure con forza.
Ed ecco allora la funzione dell'azzurro: preparare la tenebra alla luce, ai colori che presto voceranno dal silenzio più fondo, ma assolutamente mai muto.
Ma l'azzurro non è solo colore-segno, è anche (e a volte contemporaneamente) colore-linea, come lo stesso nero. La linea ha una funzione importantissima in Congdon poiché essa «sembra separare, invece segna la comunione, unisce, è luogo d'incontro», la linea è inoltre «segno dell'accostarsi di una forma all'altra».16
È comunione, abbraccio, il punto di contatto, dialogo, unione di parti nella totalità. È quella sottile striscia che separa l'invisibile dal visibile, ma è contemporaneamente quella sottile striscia che anche unisce il visibile all'invisibile; è, in altre parole, il punto di contatto che ci permette di percepire l'invisibile e dissetarci alla sua fonte, come le mani chiuse a coppa raccolgono l'impalpabile acqua.
Ma è ancora qualcosa di più, è creazione, l'atto di creazione perché da essa nascerà la forma: prima c'è l'abbraccio, poi l'abbraccio della forma. E il nero? Che funzione ha il nero nei confronti di questa “creazione”?
Il nero è la negazione dell'immagine, è il buio. Perché allora sceglierlo come supporto all'immagine? Perché la scelta di questo colore così ingombrante, così cieco, così divorante? Nonostante tutto esso è pur sempre il colore della tenebra, del buio, del terrore.
Credo che nel momento in cui il nulla si ingombra di vita esso non potrà più esistere, quindi è il nulla a tendersi irrimediabilmente verso la vita, perché di questa ne contiene l'idea.
Il nero, così, rappresenta l'assenza che deve essere vita, la nullità sulla quale si posa il primigenio sguardo dell'artista, lo sguardo che raccoglie il gesto prima di scaraventarlo sul pannello, ed è in quel particolare sguardo che il nero si pone come abisso dal quale le forme emergeranno negando la sua nullità, ponendosi pure come memoria da cui vissute situazioni torneranno rinnovate.
Il nero, lo si è già scritto, è il colore della non-luce, dei colori assorbiti e non più restituiti, è il colore dunque e metaforicamente della vita in divenire, prima che sia, dell'attesa, e in tal modo i colori che Congdon pone sul pannello è come se li estraesse dalle viscere ingorde del pannello stesso, dove il nero non si pone più come nullità, ma come totalità assoluta, come “fermento”, e si pone pure come le infinite possibilità del divenire, del ciò che sta finalmente per essere; un po' come il blocco di marmo contiene già la forma che lo scultore poi andrà ad estrarre, così il nero: contiene già la luce della forma che Congdon vorrà per quella sua opera.
Il nero è dunque la gestazione: la memoria che restituirà al mondo quell'attimo, vissuto come immagine in qualche parte del tempo, in essa maturato: un attimo fatto di immagini, ma anche di sensazioni e di respiri, che ora la linea raccoglie e ridona di rinnovate vesti al mondo delle forme.
Ma c'è dell'altro. C'è che è la luce a impossessarsi dell'abisso attraverso quell'azzurro che è sussurro e non grido, è la memoria a impossessarsi del significato di un presente ormai trascorso, quando si è definitivamente pronti alla verità dei propri occhi, del proprio sguardo che non ha saputo vedere, ma ha saputo però guardare per poi raccontare.
E il racconto di Congdon in questi ultimi anni si è fatto diverso, più meditato, meno impetuoso nel gesto, meno fisico, come se la sua voce ora preferisse nella descrizione accarezzarle le cose, non più percuoterle.
Non è più la stagione questa della linea alta, del cielo stretto che occupa nell'economia del quadro lo spazio più piccolo ma anche più profondo, della terra che invade quasi tutta la visione, oppure di quella sottile linea di orizzonte, della divisione che è invasione nello sguardo.
Per quest'ultima linea il quadro non va visto dal centro, ma dalla sommità, gli occhi si debbono appoggiare sull'orizzonte per traguardare l'ulteriorità non dipinta, suggerita nella sua assenza, e pur sempre dipinta come può esserlo la presenza dell'invisibile.
Ma è ancora la stagione di un colore negato in se stesso per essere ritrovato nell'incidenza della luce che gioca tessuti tra i pigmenti resi allo spettatore rinnovati, quando il colore oltrepassa se stesso per invocare la materia, la visione che in un punto qualsiasi della memoria si è fermata, si è fatta momento da ricordare allorquando l'artista è pronto, noi siamo pronti, ad accogliere.
Sarà quel gesto, il primo sul pannello nero, a rompere questo silenzio, sarà quel gesto che rimane, che resta a tracciare il segno, la linea nella massa, a disegnare la forma, a gridarla forsanche per separarla, ma mai per dividere perché la vera divisione è il limite estremo del quadro, il contorno della finestra.
Questa è la stagione delle perfezioni, del gesto perfetto nel segno impuro che nell'insieme di altri segni e masse e forme impure si tende verso la purezza, la trasparenza, ciò che Congdon definisce la “trasfigurazione”, ma che preferirei definire la visione dell'ulteriorità, ciò che la realtà da sola non può dire, ma che la percezione della realtà può suggerire.
Così, tra la visione e l'opera, fra la primitiva immagine e il quadro, c'è l'attesa del tempo, la risposta a un perché nell'attimo che si rivela.
Angelo Andreotti
1 Wiliam Congdon, Il cantiere dell'artista, in R. Balzarotti, Congdon. Il Cantiere dell'artista, Jaca Book, Milano 1983, p. 78.
2 W. Congdon, op. cit., p. 64.
3 Platone, Timeo, in Opere Complete, Laterza, Bari 1980, vol. VI, 67 c, e sg. per quello che segue.
4 Charles Baudelaire, Scritti sull'arte, Einaudi, Torino 1981. Si fa riferimento precisamente a p. 61, dove scrive: «Il colore è quindi l'accordo di due toni. Il tono caldo e il tono freddo, la cui opposizione costituisce l'intera teoria, non possono definirsi in modo assoluto: esistono solo in rapporto». Ciò conferma un concepire il colore esclusivamente da un punto di vista «tonale». Riguardo poi al tono caldo e al tono freddo, i riferimenti si possono trovare ancora in Platone, nel brano immediatamente successivo a quello di nota 3.
5 Gillo Dorfles, Il divenire delle arti, Einaudi, Torino 1975, p. 86 e sg.
6 G. Dorfles, op. cit., pp. 87-88.
7 W. Congdon, op. cit., p. 74.
8 Vincent van Gogh, La poetica delle tonalità chiare e la poetica delle tonalità scure, in «Il Verri», 1981, VI serie, nn. 22-23.
9 C. Baudelaire, op. cit., p. 60.
10 Philipp Otto Runge, La sfera del colore, Il Saggiatore, Milano 1985, p. 149.
11 W. Congdon, op. cit., p. 117.
12 Ludwig Wittgenstein, Osservazioni sui colori. Una grammatica del vedere, Einaudi, Torino 1981, particolarmente p. 66. Riguardo al medesimo problema si veda anche Manlio Brusatin, Storia dei colori, Einaudi, Torino 1983, passim.
13 Wassily Kandinsky, Corso e seminario sul colore, in Tutti gli scritti, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 155-158.
14 W. Congdon, op. cit., p. 86.
15 Johann W. Goethe, La teoria dei colori, Il Saggiatore, Milano 1981, p. 16.
16 W. Congdon, op. cit., p. 70.