“Il riso chiede una sorta di sospensione del legame di simpatia che ci lega a colui di cui ridiamo”
(Bergson, Il riso)
La preparazione della scena avviene al momento, montata quasi per caso, improvvisata; un bancone di quelli da bar, gli sgabelli alti e strane scatole di cui è sconosciuto il contenuto, gli attori indossano pantaloni neri e maglietta bianca con la scritta “IO SONO ANAFFETTIVO”. Le luci solo e sempre sul personaggio, sull’attore, sull’uomo e sulla donna, sul volto in particolare, quasi ad uno specchio che trattenga luce e verità. E, dall’incipit: “Malgrado le apparenze non sono uno di voi” al finale: “Io non ci casco, io sono an-naf-fet-ti-vo”, la tensione attoriale è alta, mentire non è facile e far ridere ancora meno. Eppure ci si diverte, si ride e di gusto ad una realtà denunciata sottoriga dalla serietà dei protagonisti fortunatamente affetti dai non-affetti “…l’anaffettivo vive bene, vive libero, è realizzato”. Che caspita! Cosa se ne farà mai un morto dei fiori? E …profondamente commossi? Ma quale commozione! ci vedevamo sì e no per dirci buongiorno! “I colleghi prendono atto del decesso… sobrio pulito e sincero. Proprio così”. E così il primo monologo inizia dalla morte e lentamente ma con fierezza ne seguono altri ad indicare il percorso dell’anaffettivo… liberazione dall’odio e dall’amore, l’allontanamento dalle passioni. Oscurare il cannocchiale suggerisce l’autore… allontanarlo dalla realtà che, se vicina, fa male… suggeriva Pirandello. E intanto scorrono notizie, dai bambini soldato ai diritti violati dei minori… voce forte, fuori campo, un’eco metallica, alla fine imbarazzata… “I bambini hanno sempre giocato a fare la guerra”.
Chi parla inforca un paio di occhiali scuri.
Per l’intera rappresentazione lo sguardo dei personaggi non è mai scambievole, nessuno guarda l’altro neanche quando si passano i libri delle fiabe, piuttosto riflettono con troppo ostentata convinzione sul percorso liberatorio che dovrà compiere l’anaffettivo. E così diventano oggetto di riso sia il povero e “affettuoso” pastore che nutrì Edipo sia il grido disperato di Andromaca e le fiabe, castelli creati a suggerire pianti e commozioni e a scomodare cacciatori contro i lupi cattivi, ad assolvere i sette nani che custodivano “un ricercato dalle massime autorità” e il tutto in nome della condivisione, dell’empatia; e gli psicologi la curano pure quest’emotività quando non c’è ma… accidenti! Il tempo delle battute, dei brevi monologhi è dosato con sapienza e gli attori convincono nel loro appropriarsi della scena e smantellare la demarcazione tra teatro e vita, quella del pubblico coinvolto dai braccialetti rilevatori che verranno distribuiti; una recitazione da professionisti, empatica nell’anaffettività oserei dire, e così, semplicemente, viene da abbracciarli e dire che no, non è vero quello che dicono e che la verità è lì dentro gli scatoloni, e guardarne con loro, il contenuto. Viene da dire grazie delle risate e delle loro parole che smitizzando l’affettività ed esaltando il suo contrario si è fatta carico della sofferenza del mondo e del suo non-detto.
Patrizia Garofalo
(da 'l Gazetin, febbraio-marzo 2015)
(Lo spettacolo verrà rappresentato a Morbegno, sabato 28 marzo 2015, al Mulino Bar Ristorante con inizio alle ore 17:30. Vedi locandina nell'immagine)