La Galleria d’arte Moderna di Milano, in collaborazione con il Museo Rosso di Barzio, dedica a Medardo Rosso (1858-1928) una mostra monografica costituita da una selezione significativa della sua produzione scultorea e fotografica, a cura di Paola Zatti, dal titolo Medardo Rosso. La luce e la materia.
Quando, agli inizi degli anni ottanta, il torinese Medardo Rosso plasma a Milano le sue prime sculture, abbastanza chiaramente s’avverte che il giovanissimo artista ha già ripudiato per istinto, prima ancora che per convinzione critica maturata attraverso approfondimenti culturali, il titanismo che continuava a suggestionare i facitori di monumenti. Quelle sculture denotano invece un legame col naturalismo lombardo, in particolare col Grandi, e riecheggiano persino, alla lontana, delle prime esperienze del Gemito. Il Rosso non soggiace supino ai modelli e insegue una propria idea della scultura che rifiuta ogni schema aprioristico per lasciare libero corso all’ispirazione.
La materia, per Rosso, se governata intimamente dal sentimento che l’opera ha promosso e definisce, deve ignorare se stessa ed essere ignorata, costituirsi cioè esclusivamente quale strumento. Su questa via, prima di partire per Parigi, aveva portato avanti le proprie esperienze, sia con Impressione d’autubus che con La portinaia che sono le più sicure premesse al corso successivo del suo linguaggio, il quale matura a Parigi con sconcertante rapidità, non tanto per supposte desunzioni dall’Impressionismo quanto perché confortato dal clima stesso di quella cultura, certamente più aperto e lievitante di quello milanese. Fatto è che, da quel momento, Rosso continuerà ad agire sul filo di una coerenza ad un tempo linguistica e morale, mantenendo fermo quale obiettivo una scultura dalle forme aperte, determinate dalla luce e dall’intensità del sentimento che si tramuta in espressione. Per lo scultore, superato il momento della “macchietta”, del tipo, del ritratto, egli elimina ogni convenzione formale di scuola, trova nella cera la materia adatta a modellare senza peso, e crea la scultura dei propri sogni, la scultura dell’attimo luminoso che si fissa nell’immagine concreta di un volto. Ma sarebbe vano ridurre quel volto alle proporzioni di un modello qualsiasi, perché non si tratta di un “frammento”, e tanto meno di un ‘documento’, essendo ben evidente il distacco dalla verità psicologica.
Con Rosso, dunque, la scultura si interiorizza sino a disgelare una verità segreta.
È un passo decisivo verso una moderna concezione dell’arte. L’opera di Rosso, infatti, chiude definitivamente il tempo della statuaria, a uso dei sentimentalismi civili, e inaugura il tempo in cui l’opera d’arte è intesa come prodotto dello spirito.
Se altri, in Italia, avevano sostenuto tutto questo pur fra tante contraddizioni, soltanto Rosso seppe rendere legittimo quel prodotto al più alto livello di linguaggio.
Non per nulla di lui si deve parlare come di un autentico novatore. Come tale egli sfidò la diffidenza di un ambiente decrepito e l’aperta ostilità dei suoi critici, e dovette sopportare anche non poche umiliazioni, come ad esempio il rifiuto delle sue sculture all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Ma come tale egli si impose però alla cultura e alla sensibilità moderne: i futuristi, per primi, ne confermarono l’importanza. L’esposizione Medardo Rosso. La luce e la materia, ha un percorso tematico che prende avvio con quattro delle più significative opere degli esordi di Rosso, tutte realizzate a Milano e presentate in diverse versioni: il Birichino, prima opera comparsa nelle sale di Brera nel 1882, il Sagrestano, soggetto comico e quasi spietato del 1883, la Ruffiana, dello stesso anno, rappresentazione caricaturale, nel solco della tradizione verista e Portinaria, 1890-1905, del Museo di belle Arti di Budapest.
La seconda sezione vuole restituire, in molti casi attraverso differenti versioni messe a confronto, due temi fondamentali, la sperimentazione materia (l’utilizzo personalissimo e inconfrontabile di gesso, bronzo e cera) e il processo creativo dell’artista che procede per sottrazione fino al raggiungimento di esiti di sorprendente modernità. Due aspetti illustrati attraverso le straordinarie e inquietanti Rieuse, Henry Rouart, venerato collezionista e ospite di Rosso nel primo periodo di permanenza a Parigi, presentato nelle tre versioni in cera, gesso e bronzo; due soggetti del 1894, L’uomo che legge e Bookmaker, quest’ultimo del periodo di più stretta vicinanza con Degas; la Bambina ridente, opera in cui traspare un legame forte con la tradizione rinascimentale, Aetas Aurea e Bambino ebreo.
La straordinaria Madame X, accostabile, per concezione rivoluzionaria e distanza siderale dalla scultura tradizionale, alle opere di Costantino Brancusi. Solo che il rumeno credeva che il gesto del vero scultore fosse quello di raggiungere l’assoluta purezza della forma universale tagliando, scolpendo materie dure, ostili. Rosso era un modellatore, e con quale delicatezza offuscò ogni dettaglio di quel volto come spolpandolo, cancellandone i particolari, creando una perfetta forma ovoidale, temporanea condensazione dell’aria, transitoria solidificazione di un sentimento, forse di un ricordo, visibile ora, per un attimo, a un passo dal nulla. Al centro della terza sezione della mostra con Madame X in perfetto dialogo appare, con due versioni a confronto in bronzo e cera, l’Enfant malate, documento della fase sperimentale più coraggiosa di Rosso.
Il percorso dedicato alle sculture di Rosso si conclude nella sala finale della mostra con due soggetti Ecce puer (tra gli ultimi concepiti da Rosso, risalente al 1906),
Madame Noblet, soggetto declinato in quattro sole varianti in un lungo arco di tempo (dal 1897 agli anni Venti), e di cui la GAM possiede la versione in bronzo.
Una sezione di opere fotografiche (stampe a contatto da lastre originali e stampe originali) documentano un aspetto fondamentale della vicenda artistica di Rosso. Come avviene per alcuni grandi pittori e scultori tra Otto e Novecento, esporre le fotografie realizzate da Rosso accanto alle sue opere scultoree non ha solo un valore documentario. A partire soprattutto dalla fine dell’Ottocento, la fotografia assume per Rosso il senso di una ricerca autonoma e compiuta, parte integrante e insostituibile di un incessante lavoro di ripresa di poche, essenziali immagini, che ha, non a caso, un equivalente in quella continua rielaborazione delle sculture da lui ideate entro i primi anni del Novecento, che caratterizza gli ultimi decenni della sua carriera.
La fotografia, della quale Rosso aveva una notevole conoscenza tecnica, era per l’artista occasione di un lavoro sulla materia e sulla luce, ormai svincolata dal confronto col vero: Rosso fotografa le sue sculture e i suoi disegni, per intervenire poi con viraggi, ingrandimenti, foto di foto, scontornature, collage, tracce di materia pittorica, tagli e abrasioni, fino ad accettare l’intervento del caso e dell’errore. Esposte nelle sue mostre accanto alle sculture e pubblicate, spesso sotto il controllo dell’autore, in libri e riviste, le fotografie così ottenute devono essere considerate a tutti gli effetti vere e proprie opere di Rosso, e consegnano alla storia un artista che ha saputo vedere al di là del suo tempo.
Maria Paola Forlani