“Datemi il nastro rosso
e poi… seguite il fiume, e poi…
Fino al ramo nell’acqua
fino al ceppo bruciato, più avanti
più avanti… fino all’ultima siepe di rovo
Usciremo da questa storia
– credetemi –”
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In L’aspetto orale della poesia e in molti altri suoi testi è evidente lo studio e l’amore per la storia della filosofia. Se ne avverte un lontano richiamo e a tratti sembra che strani nessi si vengano a creare tra la contemporaneità della sua poesia e certe forme della poesia epica antica. Quali sono, e quanto sono stretti, questi nessi?
Mi sono occupata di filosofia per molti anni ma in maniera assolutamente irregolare, disordinata. Me ne sono occupata perchè la filosofia mi sorreggesse in poesia, non per altro. Volevo che mi sorreggesse in poesia anche se per poco, anche se solo per un grammo: parlo della filosofia greca antica, in particolare, ma anche della filosofia del novecento. Su questa base, negli anni, si sono inserite alcune voci della filosofia orientale e s’è creato uno strano intreccio. C’è voluta una vita… prima per creare e poi per dimenticare questo strano intreccio. Dico filosofia, ma in realtà s’è trattato d’altro e alla fine tutto ciò che sapevo l’ho sepolto in poesia. Ho sepolto tutto ciò che sapevo in poesia perché la conoscenza potesse avere una nuova nascita in una ritrovata povertà della parola… Si tratta di una povertà della parola in se stessa, ma si tratta anche di una mia povertà di parola perché, in verità, mi sono convinta di una cosa: il troppo linguaggio prima complica poi azzera. Nel linguaggio ci sono dei vuoti ma i vuoti del linguaggio sono la nostra ricchezza: nulla si limita al presente, non è mai tutto qui. E sì, in poesia si apre un tempo in cui le cose lontane sono vicinissime. È una distanza/vicinanza che perdura, è un orizzonte a ritroso, un frammento di forme più grandi e perdute. Non so, forse nella mia poesia s’intravedono frammenti, residui di poesia antica, eppure certo, la distanza è abissale, incolmabile. In comune con la poesia antica ci sono, forse, un uomo, una donna, una vecchia, un bambino… l’agire, i conflitti, il vivere sempre appresso al morire. Il campo, la casa. La minaccia, il fato, i comuni mortali, l’incomprensibile incombere di qualche divinità. I luoghi comuni, il ritorno. Le formule, le ripetizioni. E quell’attitudine a ricordare… quel ricordare qualcosa da raccontare a qualcuno… quel sistema paratattico, quel ritmo arcaico, senza fine che si interrompe continuamente per poter essere ripreso, ripetuto, un’altra volta, e un’altra volta ancora. Fino al teatro, fino alla tragedia greca, fino allo spettacolo del nostro stare nel tempo. Fino all’hairesis, la scelta, il riconoscimento. Sul sostrato tragico ed epico poggiano anche le cose piccole e quotidiane, come le cantilene d’ ogni tempo, le prove del fuoco, le ninnenanne, le conte dei bambini nelle piazze. E cose misteriose come il dondolio di una culla, l’ incrocio dei destini sulle porte, sulle foglie… I nessi tra la mia poesia e la poesia greca antica, se ci sono, finiscono qui. Non so, probabilmente il lontano eco greco non è rintracciabile oggettivamente, forse sta solo nella mia disposizione, nell’ orientamento del mio sguardo su quel tempo: quanto vorrei poter scrutare fin là!
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Ha parlato spesso di quell’antica relazione tra “oralità e poesia” da un lato e “prosa filosofica e scrittura” dall’altro, in particolare nel saggio L’aspetto orale della poesia: “Quando in Grecia la civiltà orale cominciò a trasformarsi in civiltà della scrittura la parola piano piano smise di essere un’ eco e diventò un manufatto”. Come si è formata la sua disposizione all’oralità della poesia?
Stiamo parlando di passaggi enormi e non ne so abbastanza ma là, in L’aspetto orale della poesia intendevo sottolineare che la nascita della scrittura nel tempo ha portato inevitabilmente a una perdita di memoria: dal momento in cui le cose potevano essere scritte potevano anche venir dimenticate. Ne sarebbe comunque rimasta traccia. E intendevo dire che se nella tradizione orale la voce andava dalla bocca di uno all’orecchio di un altro nella dimensione dell’ascolto, con la nascita della scrittura il segno passava dalla mano dell’uno sotto gli occhi di un altro nella dimensione del vedere… Mi riferivo alla scrittura come a un manufatto, in quanto opera della mano. Poesia e filosofia sono nate orali, e all’inizio andavano insieme. Nei secoli che hanno accompagnato il passaggio dalla tradizione orale alla scrittura la parola filosofica ha scoperto che d’ogni pensiero era possibile lasciare visibile traccia… In questa permanenza e visibilità per la filosofia s’è aperta la strada della forma scritta e in prosa, entrerà nei Dialoghi di Platone in forma scritta, sì, ma ancora calata nella dimensione orale del dialogo, mentre la poesia percorrerà la sua strada orale e popolare tra mito e rito fino a evolvere nella forma della Tragedia con le opere dei grandi tragici greci. In quelle opere la poesia viene scritta, sì, per essere detta a gran voce, là, nel teatro… Aristotele con la sua Poetica, ce ne dà le coordinate. Parola e alfabeto sono questioni che riguardano i popoli prima che la letteratura… io ne accenno a partire dall’ interno della poesia all’inizio del secondo millennio dopo Cristo, e da qui viene il capogiro… sì, la relazione oralità – scrittura è una vertigine del tempo, è cosa infinitamente complessa, su cui solo per un attimo e poeticamente posso gettare lo sguardo, per subito ritrarmi, rifuggirne… Oralità e scrittura: potenze ancora in atto, un intreccio millenario che ci avvolge, che mi avvolge ancora, un intreccio colossale nel quale personalmente mi dibatto e mi smarrisco ancora.
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Facendo distinzione fra voce silenziosa e mentale del lettore solitario e voce “pubblica” della lettura ad alta voce, sostiene che una voce autenticamente poetica non può essere una voce recitante. Nell’antichità la poesia orale aveva sempre “una voce” udibile, un narratore: il poeta epico, oppure l’oratore oppure la nutrice con il suo canto. Che importanza ha per lei la lettura della poesia ad alta voce?
Poesia orale non significa certo poesia letta ad alta voce. Per quel che mi riguarda la dimensione orale è già impressa nelle strutture compositive del testo. E la poesia ad alta voce, letta da chi l’ha scritta, non può essere una recita. Ogni poeta sa quel che dice, parla per sé, traendo ogni volta da sé… Altra cosa è l’attore o l’attrice che dice versi non suoi. Credo che la dimensione orale della poesia è qualcosa che forse abbiamo dimenticato ma ci costituisce… è un rapporto stretto con la parola, è una fedeltà alla propria voce. In questa fedeltà non c’è gara, non c’è spettacolo. Per questo non mi ritrovo nella poesia performativa, negli slam poetry… La dimensione orale tiene vivo pubblicamente il profondo rapporto del poeta con la sua scrittura… ad esempio, a me non serve aver davanti la pagina stampata, il libro… So quel che ho scritto e questo basta, e ho un rapporto vivo con la memoria, non ho bisogno di rileggere ogni volta. Sì, molto di quel che ho scritto s’è impresso in me e lì rimane, non so perché… Ricordo versi di tantissimi anni fa, li ricordo, senza averli mai davvero mandati a memoria… mandare a memoria cambierebbe il senso, il tono… E infatti ogni tanto, nel ricordo, nel verso, nella voce entra una parola imprevista e un’altra si perde …e non importa, per me è naturale… So che tutto questo non basta a fare regola, e non importa se non fa regola: il fatto è che in me serbo un modo d’essere antico. È solo questo, solo questo, l’ho detto, la poesia non è mai tutta qui.
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“Per amore della verità abbiamo rinunciato a ogni abbellimento”, è una frase tratta dal Suo libro Tà. Poesia dello spiraglio e della neve che ho tradotto in greco e fa parte della poetica mitologia contemporanea [Tà (2011), Il mio nome è Inna (2012), Katrin (2013)]. Quanta verità può contenere una mitologia poetica?
Luigi Bosco nel suo portale poesia 2.0, e in alcuni articoli successivi, ha definito la poetica di questi tre libri poetica mitologia contemporanea. Con questa definizione Luigi Bosco in TÀ indica una poetica comunità, rintracciabile anche nei libri successivi. In effetti si tratta di esseri umani chiamati Tolki, i parlanti. Penso a un Tolki come a un parlêtre, un essere marchiato dal linguaggio. Parlêtre è un neologismo di Lacan che fonde l’essere al linguaggio nell’atto della pronuncia. I Tolki sono esseri sacri e miserabili, misteriosi e semplici. Alcuni ricompaiono da un libro all’altro, a volte sono solo un lampo. Se tornano sono loro, ma sono differenti. Importante per la comprensione di tutto ciò la postfazione di Alessandra Pigliaru ai libri. “Per amore della verità abbiamo rinunciato a ogni abbellimento” era scritta nei titoli d’apertura del film di Robert Bresson Un condannato a morte è fuggito. Probabilmente era anche in forma un po’ diversa perchè l’ho ritrascritta così come la ricordavo. Era, credo, una dichiarazione di poetica di Bresson stesso, e l’ho riconosciuta subito perchè era anche la mia: in Tà poesia dello spiraglio e della neve, e nei due libri successivi Il mio nome è Inna e Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, è stato davvero così: la rinuncia riguardava la parola. In questi libri si consumano tanti sacrifici, rispetto alla parola, sì, c’è una spoliazione in atto. Come se nella parola che s’innalza in bellezza si nascondesse una colpa. O meglio: solo la parola coi piedi per terra può essere davvero compresa, e solo là dove c’è comprensione può esserci trasformazione nell’anima. Le poesie di questi libri sono poesie brevissime, cose minime… sono frammenti. Nella lettura ad alta voce poi monto questi frammenti uno sull’altro secondo un ordine sempre differente, come se si trattasse di sola lunga poesia che là, nel libro, rimane fatta a pezzi. Dico lettura, ma non è vero, perchè non leggo mai… ma non ho ancora trovato la parola giusta per esprimere quel che faccio: dire no, leggere no, recitare no… insomma non so. I libri, per ora, sono tre, ma ci tengo a dire che non è una trilogia, nè una quadrilogia… o cose del genere. Non mi piacciono le trilogie. E poi una trilogia è qualcosa che si chiude. Qui la questione non si chiude, anzi, si apre. In ogni caso il lontano eco greco si avvertiva anche nei libri precedenti, forse di più: in La corsa dei fuochi, in apertura e sullo sfondo, per un attimo si intravede la reggia degli Atridi, la sentinella accucciata sugli spalti. In Neo/Alcesti canto delle quattro mura, l’eco è nel titolo stesso.
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“La cosa più incredibile dei miracoli è che accadono” diceva lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton. Leggendo la sua raccolta Katrin. Saluti dalla casa di nessuno, sembra che lei ai miracoli ci creda. Qual è il miracolo che vorrebbe veder compiuto in terra?
Questa è la domanda più difficile del mondo. Certo per fare miracoli o anche solo per riconoscerli bisogna prima crederci. Miracolosa è la nostra parola. La parola di tutti e la parola di ciascuno. Chiama le cose a sé. Lancia un ponte tra visibile e invisibile. Getta sul mondo un manto di neve. Eppure non basta mai, mai…
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“Il poetare, forse anche il sognare, del «corpomente» femminile svela fisionomie dell’essere segnate da differenze così remote che finiscono col confondersi con le stesse ombre cui sono sfuggite”. Quali sono le figure femminili che con la loro opera hanno contribuito alla sua formazione?
Sono figure femminili illuminate e illuminanti sfuggite in tempi brevi all’oscurità dei secoli. Mi riferisco alle figure delle grandi pensatrici e filosofe del ‘900 che nominavo prima e che è impossibile non amare: Simone Weil, Marie Zambrano, Hannah Harendt… Le ineludibili, insomma, ma non solo. I tratti fondamentali del loro pensiero si staccano da scuole e maestri per fondare una statuto proprio. Una cosa così s’è intravista a intermittenza nei secoli. Figure eccentriche diventate centrali. Penso a Hildegarda di Bingen, a Margherita Porete, ad esempio… ai salotti e alle opere delle Dame francesi del ‘600, alle Preziose, alla vita assai complicata di Olympe de Gouges che scrisse a fine ‘700 la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. Scrisse una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina e finì ghigliottinata, pare, per ordine dello stesso Robespierre. In poesia illuminante per prima fu per me Emily Dickinson… Ma scolpite in me ci sono anche figure femminili inventate ritratte nel cinema: Mouchette, ritratta da Robert Bresson, ad esempio, Anna in Dies Irae e Inge in Ordet, ritratte da Karl Theodor Dreyer. E la sposa che sogna in L’Atalante di Jean Vigo. Penso a Nana di Questa è la mia vita, ritratta da Godard. Il cinema ha fortemente influenzato la mia scrittura. Parlo del cinema dei registi nominati qui e di una manciata d’altri. Poi, come dicevo, scrivendo in poesia tutto si fonde, svanisce, sembra che io non ricordi più niente, ma qualcosa qualcuno è entrato e continua a vivere dentro, non se va.
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Lei dice: “La mano della donna che scrive è la mano che si è ritratta dalla farina così come dal sangue. Prende la penna, preme il tasto, sfiora il monitor, traccia ancora la sua anamnesi, ricorda”. Cosa significa per lei essere una donna poetessa? La poesia femminile si differenzia da quella maschile?
La frase si trova in L’aspetto orale della poesia, un libro che ho scritto a fine anni ’90. La mano che scrive come ritraendosi dalla farina e dal sangue è una mano femminile. Farina e sangue sono elementi dell’oikos… sono elementi che tratteggiano una speciale oikonomia in cui il sangue non è sinonimo di violenza ma è generante vita. E la farina è ciò che si trasforma in nutrimento. Anche il linguaggio è una farina e può farsi nutrimento. Rispetto alla questione della poesia femminile, ho imparato una cosa da Luce Irigaray molti anni fa: il linguaggio non è mai neutro, volge sempre al maschile. Celebre è l’assunto ‘l’uomo’ inteso come categoria filosofica che include anche la donna. È proprio questo il punto. Perché la include, cioè la esclude? Difficile per una donna esprimersi in una lingua che la esclude. Non lo so, parlo per me ma probabilmente la prima differenza tra poesia scritta da un uomo e poesia scritta da una donna si radica proprio in questa difficoltà a dirsi in una lingua che mantiene in sé rimozioni di questo tipo. Le cose lentamente stanno cambiando ma per millenni l’uomo, e qui l’uomo va inteso alla lettera… per millenni l’uomo si è espresso in una lingua di cui era padrone. E la padronanza della lingua, lo sanno tutti, non è cosa da poco… L’incredibile però è che alla fine tutto ciò non occupa direttamente la poesia, perché la poesia è più grande. Se mai la poesia se ne preoccupa, cioè se ne occupa prima… Sì, la poesia è più grande perché, nonostante tutto, è capace di tracciare al suo interno il suo campo libero.
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Diotima e la suonatrice del flauto è un libro pubblicato nel 2004 che ha avuto un notevole successo. Un testo poetico e tragico insieme, ambientato ad Atene nel V secolo a. C., nato dalla “rilettura” del Simposio di Platone che dà voce a due donne dimenticate dalla storia, Diotima (maestra di Socrate) ed Anna (la suonatrice del flauto). Come è nato questo scritto?
Diotima e la suonatrice di flauto è un atto tragico pubblicato da La Tartaruga-Baldini Castoldi Dalai. L’introduzione è di Luisa Muraro. L’atto tragico è stato messo in scena con mia regia a Verona in più occasioni, e a Milano alla Casa della Poesia, presentato da Giancarlo Majorino. L’atto è ambientato nell’Atene del V secolo a.C. e la storia è questa: nel Simposio di Platone la suonatrice di flauto chiamata ad allietare la serata viene allontanata per consentire a Socrate e agli altri uomini lì riuniti di riflettere liberamente sull’amore… dunque la giovane donna esce dalla stanza della filosofia, cioè dalla celebre casa di Agatone… e scompare dal Simposio. Scompare per sempre nel nulla. Il mio atto tragico comincia proprio nel momento in cui la donna esce da quella stanza. Ed è naturalmente opera d’invenzione. Che accade? Sul sentiero tra gli ulivi la suonatrice di flauto incontra Diotima, l’altra grande presente/assente dal Simposio… ma non dico di più altrimenti racconto tutto… Dirò solo che l’atto è tragico… ahimè, sì, è una tragedia a tutti gli effetti. Diotima e la suonatrice di flauto è un piccolo libro che racconta di un’esclusione, dal Simposio e dalla Storia… Quanti secoli ci sono voluti, quanti ce ne vorranno ancora per tornare vive e vegete là dentro?
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Diotima dice ad Anna: “Loro, ti hanno mandata via sul più bello e hanno parlato tra uomini dell’Amore. Io invece volevo parlarne con te”. E io qui chiedo a lei: potrebbe parlarmi dell’Amore? Che posto occupa l’amore nella poesia e nella sua vita?
È una domanda immensa: dovrei inventare un altro dialogo sull’Amore per mettere a punto qualcosa di sensato… Ma è questione importante. È importante che chi chiede osi mettere l’Amore in domanda e chi risponde accetti di parlarne… Spesso si fugge di fronte alle questioni enormi per non dire delle banalità, ma qui rispondo… Nei luoghi comuni sull’Amore c’è anche un margine di verità… Uomini e donne… Spesso gli uomini tendono a pensare l’amore da un lato e a fare l’amore dall’altro. In mezzo c’è una frattura… un vuoto, una mancanza. Là nel Simposio, ad esempio, 2500 anni fa, gli uomini si trovavano a parlare dell’amore tra uomini, ed erano uomini che amavano altri uomini. Così dal Simposio le donne erano escluse due volte, anzi, a priori… Io sono una donna che ama gli uomini, ho avuto due figli… e c’è l’amore per i figli. C’è il tempo passato e c’è l’amore per il tempo passato, c’è il tempo a venire… C’è la poesia e c’è l’amore per la poesia… L’amore, l’amore… l’amore si dà in forme d’infinito, non se ne viene a capo. Potrei mettermi qui e recuperare qualche aforisma, qualche citazione folgorante, ma no, non lo faccio! Sarebbe una scorciatoia, sarebbe come dare la parola a chi non c’è… in amore non funziona… se poi togli la citazione tutto crolla! So per certo che l’amore è uno sbilanciamento verso l’altro, è uno squilibrio cieco, pericoloso: non sai mai se quello sbilanciamento è l’inizio d’un volo o d’una caduta. Lì, in bilico, non sai neppure se sei tu quella che salva, o se invece sarai salvata… eppure… Sì, l’amore ricade anche in poesia, senza un tonfo… ricade con un canto, un lamento, un mormorio… A volte è un alleluia, a volte è un sussurro e lo sentono tutti, a volte un allarme e non lo sente nessuno… Poi c’è l’amore del mondo, quello sì, è chiaro.
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Quale o quali versi desidera dedicare ai nostri lettori?
Se sono pochi versi, li riporto qui a memoria, da Il mio nome è Inna:
“Ho poche parole e m’arrangio con quelle
non voglio far torto a nessuno
non voglio incantare nessuno
volevo solo imparare dalla rondine”.