Non c’è forse domanda più gravosa e assillante, in sede teoretica come in sede pratica, del chiedersi perché l’uomo sia tanto immerso nella violenza, del perché la sua esistenza sia tanto abitata dall’ errore e dall’orrore.
Tutte le religioni, da sempre, hanno cercato di fornirci delle spiegazioni. Ci hanno parlato di “caduta”, di “ribellione”, di “disobbedienza”, di “cacciata”, di “esilio”… Ma le spiegazioni metafisiche, lo sappiamo bene, spiegano qualcosa soltanto per chi ha già messo in cassaforte le uniche risposte ritenute “giuste”. Alle orecchie di chi si interroga senza pregiudizi, al lume fioco ma sano della ragione, continuano a non apparire in grado di “spiegare”.
Ma anche le più ardite e sofistiche elaborazioni concettuali della storia della filosofia che hanno tentato di parlarci del perché del Male (giacché chiederci perché l’uomo erra ci obbliga a porci il problema dell’esistere stesso del Male, della sua natura e della sua origine) sono tentativi che possono avere senso esclusivamente per chi si colloca all’interno di ben determinate coordinate ideologiche. E così, le affannose fatiche di Agostino, come quelle di Leibniz, sono spietatamente destinate al naufragio.
L’esserci del Male nell’uomo, infatti, rimane il mistero più grande e insondabile, rimane ciò che più ci sgomenta e ci raccapriccia, ciò che più attacca e intacca la nostra sconfinata presunzione di onnipotenza e di primato assoluto nei confronti di tutto ciò che ci vive accanto.
Se è vero che il filosofare nasce dallo stupore, nulla deve aver inquietato il pensiero umano tanto quanto il cercare di spiegare a se stesso l’esserci, dentro di sé (soprattutto) e fuori di sé, del Male. E interrogarsi sull’origine del Male ci conduce ad interrogarci sull’origine della Vita stessa, sul fondamento della Realtà tutta. In pratica, ci costringe a chiederci perché la nostra esistenza sia così ricca di esperienze dolorose, perché la vita, in genere, anche per gli altri esseri senzienti, comporti forme di sofferenza incalcolabili. Ma, soprattutto, ci costringe a chiederci (cosa questa ancora più scomoda) come sia possibile che l’essere umano sia tanto capace di produrre il Male in quantità e in modalità tanto ripugnanti.
L’ESISTENZA COME DELITTO E COME PENA
Il primo tentativo filosofico, a noi noto, in seno alla cultura occidentale di spiegare l’origine della condizione dolorosamente fragile e transeunte dell’esistenza umana in chiave metafisica lo rintracciamo nel frammento di Anassimandro («Principio degli esseri è l'infinito... da dove infatti gli esseri hanno origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo») in cui il sorgere della vita è equiparato al compiersi di una “frattura” all’interno dell’Essere indeterminato (àpeiron), separazione destinata ad essere espiata inesorabilmente con l’universale pena della dissoluzione. La vita stessa viene equiparata a delitto, necessariamente pagato/espiato con la morte. Perché la vita di ogni essere individuato è separazione dall’indistinto e la morte ritorno all’indistinto.
La vita del singolo ente è il risultato, infatti, di una sorta di “appropriazione indebita” – potremmo dire “sacrilega” – di un frammento di Essere. E il voler affermare il proprio diritto all’esistenza (individuata), la celebrazione e la difesa di quello che Schopenhauer chiamerà il principium individuationis, è, in sé, il fondamento del vivere in quanto dissoluzione dell’unità precosmica e, di conseguenza, è il “delitto fondativo” che rende possibile la vita dei singoli esseri, scaturiti dalla frantumazione dell’Indistinto. In questa prospettiva, la vita stessa è pregna di Male, anzi la vita stessa è il Male. Il Male di vivere è il Male derivante dal vivere, creato dallo stesso vivere. Tra Vita e Male si verrebbe a instaurare, così, una totale simbiosi. Il Male non sarebbe un mero accidente, un qualcosa che si viene ad introdurre strada facendo, una sorta di affezione patologica che colpisce la vita (sana in sé), bensì qualcosa di inscindibilmente e di intrinsecamente immanente alla vita individuata, estinguibile soltanto coll’annichilirsi dei confini che hanno “dilaniato” l’Essere, con il rimescolarsi, cioè, delle singole esistenze all’interno del principio originario, matrice indifferenziata di ogni cosa.
L’ESPERIENZA DEL DOLORE
In una delle sue pagine più intense, Norberto Bobbio scrive che, alla fonte del cammino della cultura dei diritti umani (e, potremmo forse dire, di ogni seria riflessione sul senso della vita, alla radice stessa di qualsiasi forma di ricerca di risposte teoriche e soprattutto pratiche), ci sarebbe il confrontarsi dell’uomo con l’esperienza del dolore.
Il dolore, cioè, sarebbe stata la forza che avrebbe inchiodato l’essere umano alla constatazione della durezza della realtà delle cose, trasformando la percezione insopportabile della propria precarietà e della propria caducità in travolgente e incontenibile desiderio di inventare strategie e strumenti capaci di alleggerire (se non di eliminare) il fardello della sofferenza. Si potrebbe dire, pertanto, che a fondamento di tutto ciò che attiene al vivere degli uomini ci sia l’esigenza di arginare, ridurre e, quando possibile, sopprimere tutti quei fenomeni intendibili come potenziali cause di dolore.
Sarebbe stata, quindi, la discesa fra le fiere umane della virtù della “concordia” (di cui parla il mito platonico presente nel Protagora) a rendere possibile la vita associata, la sospensione (o, almeno, la riduzione), cioè, delle ostilità fra uomo e uomo e la collaborazione fra i membri dello stesso gruppo. E il cammino della intera civiltà umana andrebbe quindi inteso come uno sforzo incessante di creare, sul piano del pensiero e sul piano del vivere quotidiano, sentieri capaci di condurci oltre gli inferi dell’odio e dell’impiego brutale e egocentrico della forza.
QUANDO IL PENSIERO CAMBIA LA STORIA: CESARE BECCARIA
È in questa prospettiva (coniugando la concezione hobbesiana dell’origine della società umana con le concezioni liberali di Montesquieu) che si pone Cesare Beccaria, quando, nel fiorire dell’Età dei Lumi, comporrà una delle opere filosofiche maggiormente capaci di incidere in maniera profondissima (e speriamo indelebile) sul corso degli eventi storici, sull’evoluzione delle legislazioni, delle politiche, della stessa sensibilità comune.
Il suo Dei delitti e delle pene non è semplicemente un libro che parla dei difetti della giustizia del suo tempo o di come andrebbero puniti rettamente i delitti umani. Il suo è un libro che nasce dalla accorata coscienza del dolore assurdo e atroce a cui l’uomo condanna il suo simile, un libro che, prendendo le mosse proprio dalla consapevolezza dell’ingiustizia, tenta di liberare la condizione umana da umiliazioni e supplizi inutili e dannosi, in quanto intrinsecamente dis-umani.
Il suo tempo si è occupato di grandi questioni. Tanti pensatori hanno affrontato tematiche importanti e innovative. Cesare Beccaria ne è ben consapevole e apprezza tutto ciò. Ma – dice nell’Introduzione alla seconda edizione dell’opera – «pochissimi hanno esaminata e combattuta la crudeltà delle pene e l’irregolarità delle procedure criminali», ritenendo così giunto il momento di aprire occhi ed orecchie sui «gemiti dei deboli, sacrificati alla crudele ignoranza ed alla ricca indolenza», sui «barbari tormenti con prodiga e inutile severità moltiplicati per delitti o non provati o chimerici», sulla «squallidezza e gli orrori d’una prigione, aumentati dal più crudele carnefice dei miseri: l’incertezza».*
E saranno proprio queste le realtà su cui egli si impegnerà ad attirare l’attenzione delle «opinioni delle menti umane», nella speranza di «inspirare quel dolce fremito con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl’interessi della umanità».*
Il suo libro, però, formalmente lontanissimo dalle modalità stilistiche prevalenti nella sua epoca, è tutt’altro che un pamphlet aggressivo, iconoclasta e compiaciutamente iperpolemico. Beccaria sceglie, infatti, una via argomentativa more geometrico di stampo spinoziano e simile a quella che caratterizzerà il criticismo kantiano: la via della cristallina analisi razionale, scevra da toni focosamente impulsivi e passionali (ma non per questo, priva di vera passionalità). Ma la sua non è neppure, al contrario di quanto da lui stesso dichiarato, una mera «ingenua indagazione della verità»* portata avanti da un «pacifico amatore»* di essa. Il suo capolavoro si configura, infatti, come una lucidissima e abilissima vera e propria macchina da guerra contro non soltanto questa o quell’altra tradizione legislativa o consuetudine giudiziaria, ma contro l’anima stessa di quello che siamo soliti chiamare ancien régime, andandone a colpire, in maniera efficacissima, quelli che ne costituivano i pilastri portanti:
- sacralità del potere politico;
- assoluta supremazia delle forme storiche del potere nei confronti del singolo individuo (e dei suoi eventuali diritti).
Ciò risulta chiarissimo già dalle prime righe del preambolo A chi legge (sempre inserito nella seconda edizione), che, prendendo le mosse dalla constatazione che le leggi vigenti in Europa non sarebbero state altro che il risultato di una farraginosa barbarica eredità di secoli lontani, mirano a relativizzarne pesantemente il valore, spogliandole di ogni intangibile alone sacralizzante e trascinandole (come semplici creature della storia) dinnanzi al “tribunale della ragione”, sostenuto solo da genuino desiderio di verità e ben indipendente dalle «opinioni volgari». Discorso che verrà ripreso all’inizio dell’Introduzione,* laddove viene asserito che, dall’esame delle «istorie» possiamo apprendere che le leggi, invece che essere «patti di uomini liberi» dettate dalla fredda capacità di esaminare e comprendere la natura umana, hanno finito per essere soltanto «lo stromento delle passioni di alcuni pochi» oppure per scaturire «da una fortuita e passeggiera necessità». In tal modo, è stato impossibile conseguire quello che dovrebbe rappresentare l’obiettivo principe di ogni civile ordinamento legislativo: il raggiungimento della «massima felicità» per il maggior numero di individui.
LE “TRE SORGENTI”
Tre sono, a detta di Beccaria, le sorgenti da cui «derivano i principii morali e politici regolatori degli uomini»: la rivelazione (volta alla virtù religiosa); la legge naturale (volta alla virtù naturale); le convenzioni «fattizie» delle varie società (volte alle virtù politiche).* Esse hanno, pertanto, differenti qualità peculiari: le prime due, infatti, sono «divine e immutabili», mentre la terza è legata e subordinata alle mutevoli necessità storiche e alle esigenze della comune utilità. Alla prima, in particolar modo, in base «al di lei principale fine», il filosofo non esita ad attribuire uno status di supremazia al di sopra di ogni possibile paragone.
Molto chiaro l’intento delle sue mosse: mettere fuori gioco qualsiasi volontà, da parte dei suoi numerosi e ben prevedibili detrattori, di accusarlo di eversiva empietà.
Il suo è un procedimento tipico del pensiero laico moderno: distinguere gli ambiti, i livelli di riferimento, quindi anche le sfere di competenza.
A lui non costa troppo inginocchiarsi di fronte alla superiorità della divina Rivelazione. A lui interessa che, nella discussione che sta per intraprendere sulla disumanità irrazionale delle leggi penali esistenti, essa rimanga del tutto esclusa dalla contesa.
E particolarmente abile è la sua mossa di minimizzare quella che potremmo definire la sostanza ontologica della terza sorgente rispetto alle prime due, conferendole, al contempo (proprio sulla base della sua “debolezza”), la caratteristica di essere l’unica delle tre realtà sorgive passibile di critica e, di conseguenza, soggetta a correzione e ad evoluzione.
Rivelazione e legge naturale, infatti, sono enti meta-storici, meritevoli soltanto di essere contemplati e coerentemente rispettati (non certo migliorati!). Ma le prime due sorgenti «benché divine e immutabili, furono per colpa degli uomini dalle false religioni e dalle arbitrarie nozioni di vizio e di virtù in mille modi nelle depravate menti loro alterate», per cui la «virtù naturale sarebbe sempre limpida e manifesta se l’imbecillità o le passioni degli uomini non la oscurassero», mentre quella della virtù religiosa «è sempre una e costante, perché rivelata immediatamente da Dio e da lui conservata». L’«idea della virtù politica» invece, può «chiamarsi variabile» e, mentre la «giustizia divina e la giustizia naturale sono per essenza loro immutabili e costanti», «la giustizia umana, o sia politica, non essendo che una relazione fra l’azione e lo stato vario della società, può variare a misura che diventa necessaria o utile alla società quell’azione». Detto in altre parole, sulla legge rivelata e sulla legge naturale, l’uomo non ha alcuna facoltà di intervento (non deve giudicare, bensì venerare ed accettare, astenendosi da travisamenti e da deformazioni). A giudicare è invece chiamato (potremmo dire doverosamente) nell’ambito delle creazioni partorite convenzionalmente. La mossa vincente del filosofo milanese sta nel determinare in maniera perentoria la necessità della distinzione fra i vari piani dimensionali: «Non tutto ciò che esige la rivelazione lo esige la legge naturale, né tutto ciò che esige questa lo esige la pura legge sociale: ma egli è importantissimo di separare ciò che risulta da questa convenzione, cioè dagli espressi o taciti patti degli uomini, perché tale è il limite di quella forza che può legittimamente esercitarsi tra uomo e uomo senza una speciale missione dell’Essere supremo».*
Posto pertanto che il punto in comune fra le tre sorgenti è rappresentato dal condurre «alla felicità di questa vita mortale» (e postulando aprioristicamente che tra le tre classi di virtù mai dovrebbe esserci contraddizione), Beccaria arriva a concludere che ai teologi debba spettare (soltanto!) «lo stabilire i confini del giusto e dell’ingiusto, per ciò che riguarda l’intrinseca malizia o bontà dell’atto» (ovvero ciò che vive nell’imperscrutabilità e nell’indicibilità della coscienza), mentre «lo stabilire i rapporti del giusto e dell’ingiusto politico, cioè dell’utile o del danno della società» competerà (esclusivamente) allo studioso di diritto pubblico. In pratica, applicando una strategia che, per certi aspetti, prelude alla distinzione kantiana fra piano fenomenico e piano noumenico, si finisce per relegare il potere teologico-religioso nell’ambito dell’ultraterreno, conquistando per il pensiero filosofico piena autorità e piena autonomia nell’ambito del mondo terreno. Insomma, Beccaria attua, in ambito legislativo, un’operazione simile a quelle compiute in precedenza da Galilei, in ambito fisico-cosmologico, e da Machiavelli, in ambito politico, preludendo a quella che verrà genialmente realizzata, qualche decennio dopo, da Immanuel Kant, in ambito etico, con la sua Critica della Ragion Pratica.
IL DIRITTO DI PUNIRE
Il capitolo intitolato Il diritto di punire rappresenta indubbiamente uno dei momenti cruciali dell’intero libro di Beccaria. Esso si apre con il riferimento alla tesi di Montesquieu, secondo la quale ogni pena non derivante dall’«assoluta necessità» sarebbe da ritenersi «tirannica» («ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico»).*
E prosegue con l’affermare che, fondandosi il diritto del sovrano di punire i delitti «sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari», tanto più le pene saranno «giuste», tanto più la sicurezza potrà risultare sacra e inviolabile e «maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi».*
Qui, la sua analisi (seppur ricavata in larga parte dalla tradizione giusnaturalistica) sa farsi particolarmente originale per incisività ed essenzialità. Gli uomini, argomenta il marchese, cedettero parte della propria libertà per trascendere la condizione primordiale di «stato di guerra», ma cedettero soltanto la «minima porzion possibile», quella sola indispensabile ad indurre gli altri a difendere quello che lui definisce il «pubblico deposito». Per cui, il “diritto di punire” andrebbe inteso come il prodotto dell’aggregazione «di queste minime porzioni possibili» e le pene dovrebbero essere assegnate soltanto in vista dell’obiettivo di conservare «il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari». Tutte le pene che verrebbero a non essere giustificate esclusivamente in vista di detto obiettivo dovrebbero, pertanto, essere ritenute «ingiuste di lor natura».
Da tali premesse, Beccaria ricava le seguenti conseguenze:
1. «le sole leggi possono decretar le pene su i delitti, e quest’autorità non può risiedere che presso il legislatore che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale»;*
2. «se ogni membro particolare è legato alla società, questa è parimente legata con ogni membro particolare per un contratto che di sua natura obbliga le due parti». Ed è pertanto «interesse di tutti che i patti utili al maggior numero siano osservati».*
3. «quando si provasse che l’atrocità delle pene, se non immediatamente opposta al ben pubblico ed al fine medesimo d’impedire i delitti, fosse solamente inutile, anche in questo caso essa sarebbe non solo contraria a quelle virtù benefiche che sono l’effetto d’una ragione illuminata che preferisce il comandare ad uomini felici più che a una greggia di schiavi, nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia ed alla natura del contratto sociale medesimo».*
In questo modo, alla umana giustizia vengono indicate le piste necessarie per liberarsi da tutto quanto arbitrariamente offende la ragione e gli interessi autentici dei singoli e della collettività, finalmente conferendole un volto mite, intelligente e proficuo.
PER UN MONDO FELICE
Dalle parole di Beccaria emerge non soltanto un modo nuovo di concepire l’amministrazione della giustizia, bensì un modo nuovo di concepire la società umana. Non più potere e giustizia intesi come qualcosa di assoluto, di sacro ed intoccabile di fronte a cui il singolo individuo è chiamato all’accettazione incondizionata e acritica, bensì come strumenti costruiti dalle singole volontà in vista della realizzazione di un mondo governato dalla ragione umana, al fine di rendere possibile una collettività di «uomini felici». Già, perché il modo di concepire la giustizia da parte degli uomini «influisce infinitamente sulla felicità di ciascuno».* E le stesse leggi, aveva detto precedentemente Beccaria, proprio all’inizio della sua Introduzione, vanno intese come scaturite dal desiderio di produrre «la massima felicità divisa nel maggior numero».*
In questa sua luminosa visione del senso e del destino dell’umana civiltà è possibile intravedere forse l’anima più vera della riflessione di Cesare Beccaria, nonché il significato più schietto della sua coraggiosa battaglia di pensatore, perfettamente meritevole di essere collocato a pieno titolo fra i giganti del Pantheon settecentesco. Una battaglia tutta protesa ad espellere dalla vita dell’uomo tutte quelle innumerevoli forme di umiliazione, di vessazione, di violenza crudele e insensata che per tempi incalcolabili hanno inquinato l’uso del potere e il modo di concepire e di amministrare la giustizia, immettendo nell’esistenza umana fiumi di tormenti, oceani di dolore… Che hanno trasformato, cioè, quello che era nato per alleggerire il fardello dell’umano dolore in fonte abissale di immonda sofferenza.
La sua, pertanto, non rappresenta solo una delle più nobili pagine della cultura illuministica, ma anche una delle pagine più significative dell’intero cammino umano, uno dei momenti più rilevanti e rivoluzionari, cioè, dell’affermazione della contemporanea cultura dei diritti umani, l’unica strada su cui potrà davvero essere fondato un futuro aperto alla reale prospettiva della felicità per l’intero genere umano, oltre ogni privilegio e oltre ogni discriminazione.
Roberto Fantini
(in Free Lance International Press, 28 dicembre 2014)
* Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di Franco Venturi, Einaudi, Torino, 1994.