Sapevo nome e cognome, data e luogo di nascita, ma non ricordavo più chi fossi. Di sesso maschile, di pelle scura e robusta costituzione, era tutto quello che potevo dire di me, guardandomi allo specchio.
Ancora una volta dovevo tornare a cercarmi. E sapevo dove, istintivamente.
La sera stessa mi ritrovai a infilare la chiave che portavo al collo nella toppa di una porticina sbilenca, e la chiave girava.
L’odore di chiuso e di umidità mi fu subito familiare. Non ricordavo dove fosse l’interruttore, e quando lo trovai la luce non si accese. Dalla porta aperta filtrava un pallido chiarore e me lo feci bastare. Un letto, per rannicchiarmi e aspettare l’alba.
Sapevo dove mi trovavo. In faccia al mare, che respirava rabbioso. Nella casetta costruita chissà quando sulla sabbia.
La chiamano amnesia globale transitoria, e non ha una spiegazione. E non ha cure specifiche. Ci convivo da sempre, con la mia assenza temporanea, quasi un’alleata contro la solitudine.
Da questi episodi ne esco sempre vincente. Perdere e ritrovare me stesso è come giocare a nascondino in una stanza vuota, e allora ti devi inventare le ombre.
E questa casa è piena di ombre. Negli angoli soprattutto, nelle fessure dei muri, negli spifferi degli infissi tarlati, nelle tubature corrose, nel battiscopa e nelle prese della corrente, le ombre vivono e si riproducono incessantemente, a migliaia a milioni, e con esse io mi mimetizzo e scompaio, facendomi beffe della mia coscienza che mi cerca.
Le chiamano blatte, ma sono solo ombre. Tutta la casa ne è infestata e nessun rimedio esiste per liberarsene. Solo quello di abbandonare la casa, ed è quello che faccio ogni tanto, ma la memoria non mi segue e resta qui ad attendere il mio ritorno, ad attendere il mio pentimento, e di nuovo mi si offre quando nel gioco del nascondino, per un pianto improvviso, per un singhiozzare di bambino, la mia coscienza mi scopre e torna a impossessarsi di me, ad accecarmi con la sua luce violenta.
Maria Lanciotti