Una vera e propria svolta culturale è arrivata il 27 luglio sulle pagine del New York Times: una delle più importanti testate del mondo si è dichiarata favorevole alla legalizzazione della marijuana. Una presa di posizione che il mondo occidentale non può ignorare.
In diversi Paesi la situazione è ormai cambiata: a fine 2013, per iniziativa del Presidente Josè Pepe Mujica, l’Uruguay ha legalizzato pienamente la cannabis, cosicché lo Stato si occupa della produzione, della distribuzione e della vendita; a gennaio del 2014, il Colorado e lo Stato di Washington hanno autorizzato il consumo di cannabis per uso “ricreativo”, e i sondaggi confermano che i cittadini statunitensi favorevoli alla liberalizzazione di queste sostanze hanno superato il 50% della popolazione.
Anche nel nostro Paese è dunque necessario un confronto aperto, a tutto campo e senza pregiudizi, sulle politiche più efficaci per contrastare il traffico di stupefacenti, e sulla depenalizzazione dei reati connessi al consumo personale di droghe leggere.
Dobbiamo innanzitutto prendere atto del fallimento della Legge 49 del 2006, la cosiddetta Fini-Giovanardi, sia per la sua scelta aprioristicamente repressiva, sia per aver cancellato ogni differenza tra le diverse sostanze, inasprendo di fatto le sanzioni anche per il consumo di modiche quantità.
A distanza di quasi un decennio, possiamo dire che tale politica proibizionista non è riuscita a contrastare né il consumo, né la produzione, né il traffico. Tanto che nel febbraio 2014 la Corte Costituzionale ha bocciato la Legge Fini-Giovanardi, facendo tornare la legislazione in materia al referendum del 1993 e quindi a un trattamento penale differenziato tra droghe pesanti e leggere. Dal canto nostro, il Patto Civico, per voce della capogruppo Lucia Castellano, ha presentato al Consiglio Regionale della Lombardia una mozione per incoraggiare il Governo a sperimentare modelli di regolamentazione giuridica della droga effettivamente capaci di minare il potere del crimine organizzato e meglio salvaguardare la salute e la sicurezza dei cittadini.
Se è ormai accertato che gran parte della sostanze stupefacenti sono importate dall’estero tramite le associazioni criminali (soprattutto la ‘ndrangheta), che alimentano i loro bilanci grazie ai proventi dello spaccio, forse è meno noto che è proprio l’Italia, insieme alla Grecia, il paese in cui la produzione nazionale di marijuana è cresciuta di più negli ultimi anni. Nella relazione UE 2012, l’Italia si segnala come lo Stato con la percentuale più alta di consumatori rispetto alla popolazione generale.
Non ci sono perciò dubbi, non solo in Italia ma in tutto il mondo, sul fatto che si debba intervenire. Già nel giugno 2011, nel rapporto della Commissione globale per le politiche sulle droghe, si raccomandava di «terminare con la criminalizzazione, l’emarginazione e la stigmatizzazione delle persone che fanno uso di droghe ma che non fanno alcun male agli altri» e di «incoraggiare i governi a sperimentare modelli di regolamentazione giuridica della droga per minare il potere del crimine organizzato e salvaguardare la salute e la sicurezza dei loro cittadini». Raccomandazioni che valgono soprattutto per la cannabis.
È arrivato il momento di depenalizzare.
Si tratta innanzitutto di una questione etica: una normativa che non funziona, cioè che non raggiunge il fine di tutelare salute e sicurezza, richiede di essere rivista. Ma è anche una questione di modernizzazione sociale: politiche e strumenti che aumentino la consapevolezza tra i giovani, stimolino le campagne di dissuasione al consumo, garantiscano un maggiore controllo nell’ambito dell’abuso delle sostanze, sarebbero sicuramente più efficaci delle politiche repressive messe in atto finora.
Umberto Ambrosoli
(da Ri.generazione, 9 agosto 2014)