Nascere al sud e vivere al nord Italia può rappresentare una ricchezza per un poeta, ammesso che lui non perda il richiamo della propria terra e il valore di ciò che vi ha vissuto, e quando riesce ad integrarsi nella nuova realtà tanto da sentirne il respiro più profondo. Così la poesia di Carmelo Consoli si divide tra oggi e ieri, tra ritmi veloci di vita cittadina, sferragliare di macchine, lampeggiare di semafori, grigio ammorbato di palazzi, e distese di limoni e mandarini, profumi di zagare e gelsomini, vaste pianure assolate, canti di cicale, scorci di mare.
Il metrò inghiotte e trascina in cunicoli bui gente sconosciuta, frettolosa, persa la dimensione familiare del paese, non più il grembo caldo della terra ad accogliere, bensì “gridi di ruggine dei treni”, “vene scure dei binari”, con i volti smarriti «che emergono/ dal cilindrico cuore della terra/ o sfumano nei cunicoli dei tunnel/ ingoiati dal nero delle stazioni». Gente che arriva e parte, il Frecciarossa che sottrae veloce la ragazza dagli occhi di gatta e bocca corallo che ammiccava discreta al bar della stazione. Rimane costante una apertura al sogno, una ricerca disperata di umanità, di tenerezza e d’amore: «Riprende la ricerca disperata/ di un amore da vivere/ in una mischia di sensi e controsensi,/ tristezze e grigi veleni,/ guerre urbane, anonime storie». L’alba di ogni giorno che spunta dà l’illusione di un altrove che dura fino allo spuntar del sole, ma di cui si riesce a cogliere tutta la bellezza: «A quell’ora scolorano i lampioni…/ E sei in un coro morbido, quasi euforia/ d’uccelli mattutini, nel passo di velluto/ che hanno le prime auto, i pendolari frettolosi,/ nel profumo dei giardini/ dentro una calma di rugiada».
Consoli scende nei capillari della vita cittadina, nella solitudine dei condomini dove la gente ascolta ed è partecipe involontaria della vita altrui; scopre “quelli dell’albergo popolare” sulle panchine «ebbre di sole, lune, amori mancati/ e meraviglie immaginate»; va col pensiero all’ospedale di Careggi, terzo piano reparto chirurgia, dove un amico combatte la sua battaglia; individua il cane che guida il padrone dal bastone bianco, entrambi di una tristezza sconfinata; si mescola ai nuovi poveri, vittime della crisi economica, con la consapevolezza della precarietà che ci insegue: «Già mi vedo anch’io con loro;/ vorrei stare accanto a Fuffy,/ buffo da morire, con le zampe alzate/ e un piattino tra i denti». Familiarizza col senegalese che «possiede soltanto/ un borsone,/ una bicicletta blu,/ una tristezza alta due metri»; osserva i lavoratori Cinesi tutti uguali scendere «al capolinea, dove Firenze si perde/ in un gorgo di pagode/ biciclette, capannoni».
Una poesia fatta di immagini, quella di Carmelo Consoli, misurata, attraversata da una vena sottile di malinconia ma tutta protesa verso una bellezza da cercare dovunque; un poeta che si fa lettore attento di ogni aspetto della vita, che sente il suo cammino -e il suo destino- saldamente intrecciati a quelli della gente, uno dei tanti a cui può capitare tutto.
Dalla TV il dolore del mondo lo investe, un rosario di disgrazie che lo lascia diviso tra la voglia di fuggire e il dovere di conoscere. Non può sottrarsi. Allora ci porta con i dimostranti sui tetti delle fabbriche a difendere il posto di lavoro: «È così da mesi/ col coltello tra i denti, la nostalgia dei figli/ annidati sul cuore spento della fonderie,/ nelle malinconie dei torni, delle presse/ a un passo dalla luna, nel volo dei merli»; tra i lavoranti di Rosarno che attendono di essere scelti ogni mattina -tu lavori, tu no-, con la vita tutta nelle mani degli altri: «A Rosarno i camion sbucano/ da contrade abbandonate,/ vanno per strade di cose bruciate,/ miasmi, esultanze di aromi e cromie/ nella loro danza segreta di andate e ritorni». Fruga commosso tra la disperazione dei terremotati in Emilia: «Ho ritrovato la foto di Maria,/ quella del mare, un bordo appena/ tra ferri contorti, travi aggrovigliate».
In contrasto con le città dove si intrecciano strade anonime, scale mobili e metropolitane, «dove nessuno ti bussa alla porta/ per farti felice e tutti ballano valzer solitari», il ricordo del sud è come uno spicchio d’azzurro che taglia il grigio di netto, come con lama di coltello. Il respiro si fa calmo a inebriarsi di profumi, lo sguardo si posa su distese di grano, intanto rallenta la corsa dei treni che ora attraversano sonnacchiosi le pianure assolate. Siamo in «terre che si assottigliano/ nella morsa di marine scintillanti,/ nella fragranza degli agrumi,/ nell’intreccio dei vitigni/ …Smarriti tra l’arancio e il mandarino,/ il mandorlo rosa, mondi vivi/ sopra ogni sfida, ogni comando». È una natura che accoglie ancora, madre, che comunque niente può fare contro il male che si allarga come una macchia paurosa e divora la società. Mancano le parole con cui dare speranza a moglie e figli, vani i tentativi di fermare i treni, “disposti a tutto per un posto di lavoro”. Un sud che comunque è il primo a condividere il dolore dei disperati che si affidano alle barche della speranza.
Negata dal presente, la serenità sta solo nel ricordo: sono i cieli che si aprivano luminosi e carichi di promesse, le vampe d’agosto nell’ozio dei papaveri, i letti di girasoli, l’ardore di baci nell’abbraccio del sole. Quando ancora non si sapeva nulla della vita. Immagini che riscaldano, accarezzano, aiutano a sopportare tutto, anche separazioni dolorose a cui non è dato sottrarsi.
Marisa Cecchetti
Carmelo Consoli, La solitudine dei metrò
Prefazione di Paolo Ruffilli.
Biblioteca dei Leoni, pp. 80, € 11,00