I maledetti
In fuga i maledetti sotto la pioggia. Gambe nere, lucide grondanti di sangue verso l’ignoto.
Permanente esilio cantilenante crepuscoli e fantasmi su chitarre accordate al pianto brontolante del cielo, al vento di parole vane.
Per un lembo di terra affrontano la minaccia, sfidano la morte.
Mani fredde scansano sassi, braccia proiettili, nel caos estraneo.
Nel gelo il sangue batte alle tempie. Soffocano. Aprono la bocca in una smorfia di dolore nell’aria gelata che brucia fino ai polmoni. Nuovo veleno scorre nelle vene col sangue. Negli occhi cresce il terrore.
Altra notte. Altra notte. Altra notte.
Altre pietre per un pugno di buio. Solo nero, non altro.
Nel tempo le pietre. Nelle pietre il tempo.
Crollano ormai le baracche. Il sangue si è raggrumato giù per la gamba del ragazzo nero sporca di fango. Pioggia nella frattura del corpo. Negli occhi polvere nera.
Ansimano tra gente che nessuno conosce e ricorderà.
A spirale il filo del niente come varco al delitto dell’inferno tra la riva del buio e l’ultima aurora.
All’orizzonte ogni cosa lontana da ogni suo tempo da ogni colore. Da un cosmo straniero le idee sorridono. Nella piana corpi giganti stesi sul selciato. Uomini colpiti a morte.
La benda di neve sugli occhi lenisce la collera dei maledetti vivi.
In fuga inversa visioni di molteplici speranze.
Aspettano che il mondo si rovesci in un colpo solo.
Si nutrono volontariamente di menzogne alla mensa dei lupi. Ma le parole non tornano a sera: s’infrangono con le onde sugli scogli.
Nulla è più indifeso delle piaghe che si scavano lentamente attorno alla parole, attorno ai giorni.
In fuga i maledetti verso altri fuochi accesi a caso nel buio tra la notte e il mondo.
Nelle strade della città straniera ombre, esseri umani in cerca di nuovi alloggi di cartone schermati dai cumuli di rifiuti.
Dietro l’angolo la trappola del silenzio.
Quasi fosse legge partorita dal connubio tra architettura e apartheid.
Al di là del fiume
c’è chi grida:
“La casa deve essere fatta. Sarà fatta, ma non c’è posto per tutti”.
Giuseppina Rando
(segnalata al Premio “Lorenzo Montano” Verona, XXIV edizione 2010)
dalla “legge partorita dal connubio
tra architettura e apartheid”
è rossa anche la mia terra
e non di rose
come la tua.
Altre città mi videro crescere
poi invecchiare, amare e rimanere ancora.
Lontana dall’agave
ho mangiato alla mensa dei lupi
dove si banchettava a parole
imbevute di promesse.
Mi ferii proprio a quelle libagioni.
E non c’era neanche una rosa tra i capelli.
E dove riposa la luna, ogni sera,
…questa cicatrice che vedi.
S’arrossa quando tramonta il sole.
E, anche stasera,
una scheggia di luna sul davanzale
riscriverà il dolore di allora.
Patrizia Garofalo