Antefatto. Lunedì, 8 luglio 2013, Angel mi ha chiamato e mi ha detto: ti ho rivalutato come amico, pertanto scegli un quadro che ti piace che te lo regalo. Ho apprezzato sia quanto mi ha detto che la sua generosità.
Ho guardato con attenzione i suoi lavori esposti nel lato sud dell’ex convento domenicano in piazza sant’Antonio a Morbegno, dove si era svolta la mostra di pittura dei fratelli Angelini.1
C’erano ritratti molto apprezzabili sotto l’aspetto pittorico, ma in quel momento mi sentivo più attratto da quello di Giordano Bruno, più affine al mio sentire in merito alla sua cosmologia e al suo pensiero complesso, innovativo, radicale.
Angel mi ha fatto presente che c’era anche un altro dipinto di Filippo Bruno, il nome originario del Nolano.
Lo ho osservato e gli ho detto che lo prendevo in prestito e che l’avrei restituito al termine di alcune note che volevo scrivere su quei due quadri anche per ricambiare la sua generosità.
I due dipinti sono molto differenti l’uno dall’altro, lo stesso personaggio è effigiato in due momenti particolari. Tutti e due sono su tela. La tecnica usata è a olio.
Uno è raffigurato su una superficie di 121 cm in altezza e 61 in larghezza; l’altro per una altezza di 46 cm ed una larghezza di 36.
Il primo, il più grande, è un dipinto; il secondo è il ritratto di G. Bruno su cui sono scritti i seguenti due motti: coincidentia oppositorum; ad vitam non ad horam; e il titolo di una sua opera: Gli eroici furori.
Nel dipinto si presenta in primo piano la figura del frate domenicano nudo con le mani probabilmente legate dietro la schiena, sul torace il viso di una donna e col membro in semi erezione; un serpente scuro avvolge la coscia destra del frate che par guardare la vagina di una donna dalla testa d’uomo barbuto, alla sua destra, o il viso di un diavolo, entrambi nelle fiamme. Tra i volti di detta donna e del Nolano s’intravedono le facce di due persone. Bruno ha barba e capigliatura folta. La bocca aperta in un enigmatico segno di dolore o di sgomento o di sconcerto lascia vedere una dentatura perfetta. Gli occhi attoniti un po’ stravolti ci impressionano e sconcertano. Dalla spalla sinistra di dietro emerge la figura di uno strano animale, forse un mostro, e sulla stessa spalla appoggia il piede destro una altra donna nuda danzante. In alto a sinistra del dipinto si scorgono altri cinque volti e quattro narcisi.
Sempre in alto ma al centro un po’ spostato a destra è dipinto il sole coi raggi con al centro un occhio scrutatore, cinto da un serpente che si “morde la coda”; accanto è evidente la figura di un rapace su uno sperone di roccia e dietro sullo sfondo ardite vette rosate. Il colore prevalente del quadro è il rosso in diverse tonalità e sfumature con alcune pennellate di verde, giallo, marrone e nero.
Il quadro vuole rappresentare la tragica fine al rogo che subì ‘il teologo’ in Campo dei Fiori a Roma nel 1600, pena inflittagli dal tribunale dell’inquisizione per non aver, infine, abiurato alle sue dottrine filosofiche, teologiche e cosmologiche.
Infatti: «tra le accuse contro Bruno, alcune concernano più direttamente la religione e cioè: la vita di eretico e il rifiuto delle dottrine cattoliche concernenti la Trinità, la persona del Cristo, la verginità di Maria, la transustanziazione; altre riguardano più direttamente aspetti della filosofia di Bruno ritenuti incompatibili con l’insegnamento della chiesa: l’eternità del mondo, l’infinità dei mondi, la trasmigrazione delle anime. Bruno viene, infine, accusato di praticare la magia». (da Il testo filosofico, vol. 2°, Edizioni Scolastiche 1992, Bruno Mondadori, pag. 237).
Mi permetto qui di segnalare in merito al pensiero del nostro frate l’encomiabile libro di Hilary Gatti, Giordano Bruno e la scienza del Rinascimento, Raffaello Cortina Editore 2001; in particolare richiamo i due capitoli a me più cari: l’universo infinito e i mondi infiniti,2 che anche dalla astrofisica contemporanea sono considerati come ipotesi plausibili.
Mi accingo ora a interpretare, o meglio a leggere, questo primo dipinto, oltre al tema principale il supplizio del Nolano.
Per primo rilevo come nel dipinto ci siano molti elementi legati alla sensualità, alla sessualità e alla passionalità dati in particolare dalle figure di donne nude e dalla presenza di due serpenti come dalle sfumature di colore rosso diffuso su tutta la tela.
Questa prima osservazione mi spinge a chiedermi che tipo di rapporto ci può essere tra il Nolano e la donna, o meglio nei confronti dell’universo femminile, quali gli strumenti che ha a propria disposizione, quale relazione con la femminilità. Interrogativi solo da imputare al nostro domenicano, o all’uomo in generale? O perché non all’artista?
Un uomo terrorizzato, indifeso, incapace di una relazione paritaria con la donna, è ciò che si vede, nonostante porti sul petto il viso di una fanciulla; in effetti il suo corpo e le sue mani sono legati, e non gli permettono nessun movimento, in totale balia della donna, la quale potrebbe disporre di lui come essa vorrebbe.
Appare un uomo attratto dalla donna e che prova piacere anche solo nel vederla, ma la colloca nelle fiamme del rogo o dell’inferno accanto al diavolo. Si potrebbe allora supporre che per il suo corpo sinuoso e nonostante la ‘testa’ maschile, la donna sia per lui tentatrice o ispiratrice di desideri e piaceri oltre la ‘semplice’ procreazione. Oppure ancora si potrebbe pensare che lui la voglia spingere a manifestare desideri e piaceri oltre i limiti o che desideri che sia lei stessa a mostragli o a esercitare su lui il suo lato più perverso, per un inusuale piacere. Il corpo della donna con la testa di uomo potrebbe essere vista come il desiderio di essere donna, ma con un pensiero maschile, o la proiezione all’esterno della incarnazione dentro di lui della figura femminile, e a confermare tale ipotesi prima si era detto che sul petto del Nolano appariva il volto di una fanciulla.
In più il volto di quella fanciulla in alcuni suoi tratti sembra assomigliare ad Angel, che sia una forma di esibizionismo?
Le fiamme, il diavolo, la donna possono essere visti anche come elementi sensuali che incarnano la passione, il desiderio, il piacere, le emozioni presenti nella nostra parte irrazionale, indispensabile alla vita, ma che devono a volte essere tenuti a freno o nascosti in quanto ‘ombre’ junghiane.
Un’altra ipotesi interpretativa, potrebbe essere il tentativo del domenicano, dell’uomo, dell’artista di sublimare la sessualità, ma in questo caso, a me sembra, più il percorso di un Santo, di un Uomo che sceglie la strada dell’ascesi e della contemplazione della natura, oppure di colui che preferisce l’atarassia filosofica e quindi come colui che si pone al di sopra di tutte le passioni e che sa dominare.
Un altro elemento degno di attenzione è il sole cinto dal serpente che si morde la coda; si può supporre che il sole possa rappresentare la luce, il calore, la gioia, il piacere ovvero tutto ciò che è chiaro, ed ispira positivi sentimenti; mentre il serpente quelle caratteristiche opposte quali l’ombra, il dolore, il freddo che sono dentro di noi.
Da ciò si potrebbe dedurre che Angel voglia farci notare la presenza della dualità in ogni cosa, nonché nella persona umana. La dualità implica la presenza degli opposti nella stessa ‘cosa’. Questo tipo di visione è maggiormente presente nelle culture orientali. Mi permetto qui di ricordare come le nostre tradizioni abbiano quasi sempre cercato di separare i due poli e di contrapporli, credendo che la verità o l’errore possano stare solo da una parte.
Si potrebbe rilevare la mancanza di interscambio fra i due poli: come il serpente non lascia passare nessun raggio di sole, così il sole non permette al serpente di entrare nella sua area. La realtà delle cose, invece, si manifesta sempre con ambiguità, sovrapposizioni, sfumature tra gli elementi. La difficoltà dell’uomo consiste nel non saper sempre cogliere anche gli aspetti che non appaiono immediatamente.
Un'altra ipotesi interpretativa, per me, legata alla forma circolare del serpente che si morde la coda, potrebbe essere quella che ogni nascita, sviluppo ed estinzione sia circolare, ossia senza soluzioni di continuità, a richiamarci la concezione dell’eterno ritorno di Nietzsche.
Ma il dipinto potrebbe essere letto ancora sotto altre angolature.
Per quanto riguarda i volti o meglio le facce o gli inquietanti animali, nonché un braccio che non si sa a chi appartenga, pongo un interrogativo: sono forse incubi, manifestazioni di paure, di persecuzioni, volti contorti dal dolore, l’emergere delle parti più nascoste e più profonde del nostro autore come dell’uomo più in generale?
Considerando tutti gli elementi del dipinto comprendendo i narcisi, i picchi e le vette innevate sembra che l’autore abbia voluto esaltare e omaggiare la natura ovvero la vita anche quella più selvaggia, perversa e sensuale, come la più recondita. Per questo il dipinto può essere apprezzato o meno, sicuramente manifesta coraggio e forza; ma il tema della natura primordiale potrebbe sempre essere migliorato.
Il secondo dipinto è un ritratto di Giordano Bruno che guarda a sinistra con la luce che proviene da destra a lasciare in ombra la parte sinistra del volto. Mi sono chiesto dove Angel poteva aver preso il modello per il suo dipinto e mi sono ricordato di averne visto uno simile nel volume 2° del testo Filosofi e filosofie nella storia di Nicola Abbagnano-Giovanni Fornero, Paravia 1992; poi in Internet ho trovato lo stesso ritratto con altri. Il ritratto di Angel rassomiglia al modello: ‘Bruno ha la folta capigliatura nera con due ciocche a ricoprire parte dell’orecchio destro; l’occhio destro ha l’iride chiaro, pare invece piccola palla scura quello di sinistro; i pronunciati baffi esaltano il sardonico sorriso sulle rosate carnose labbra’.3
Che siano voluti il collo e il naso dritto così diversi dal modello? O che inconsciamente emerga la passione di Angel per l’arte greco-romana?
‘Una tunica striata a collare bianca ricopre la parte superiore del mezzo busto’.4 Per quanto riguarda la tecnica usata, l’altezza e la larghezza del dipinto e le scritte sulla tela si rimanda a quanto già scritto sopra nella prima parte.
Si fa presente che l’iconografia di Giordano Bruno è immaginaria ed è ripresa da una incisione settecentesca tratta dall’opera di T.A. Rixner e T. Siber nel 1824.
Sulla tela compare il titolo, come già detto, di una delle molte opere del Domenicano: Gli eroici furori.
Non è possibile in questo contesto riassumere il pensiero di G. Bruno, ma diventa necessario, comunque, soffermarsi sul significato che il Nolano attribuisce ai vocaboli eroici furori, per meglio comprendere i due dipinti. A tale proposito mi avvalgo ancora de’ Il testo filosofico vol. 2° (cit.), dove, dopo averci chiarito che per Bruno esistono vari tipi di furore, ci dice anche: «diversa è la natura del furore eroico: è proprio di colui che le doti naturali e l’esercizio hanno reso capace di contemplazione […] in questa esperienza fuori del comune […] il furioso, spinto da amore per la verità giunge alla visione del divino. La dignità del furioso eroico non è allora grazia concessa da un Dio. Questo furioso non porta il Dio in sé, ma è egli stesso ‘cosa sacra’: in lui si vede e si ammira ‘l’eccellenza della sua umanità’, ovvero l’esplicarsi eccellente di una facoltà (l’intelligenza) che è propriamente umana. L’eroico furore -in cui si fondono intelletto e volontà, passione e ragione- non è una forza della quale l’uomo sia in balia ‘guidato dal caso e rapito dalla disordinata tempesta’, ma piuttosto una improvvisa accensione dell’anima, un impeto divino dell’uomo che porta chi lo sperimenta […] a fissare lo sguardo sulla verità […]. L’eroico furore si risolve, in definitiva, nel vedere ‘tutto come Uno’ e nell’ammettere questo punto di vista come il più profondo e vero. Qui emerge il valore autobiografico degli Eroici furori: quest’opera può infatti essere interpretata […] come straordinaria trascrizione sul piano gnoseologico della fondamentale ‘scoperta’ filosofica di Bruno: quella della sostanziale unità del reale, messa a tema nel De la causa, principio et uno», (pag. 257).
Negli Eroici furori è contenuto anche il mito di Atteone, il quale nel contemplare Diana nuda, viene trasformato in cervo: «diventando preda anziché cacciatore, è la metafora dell’anima umana che, andando in cerca della natura e giunta finalmente a vederla, diventa essa stessa natura. Per Bruno, il grado più alto della speculazione filosofica non è […] l’estasi mistica di Plotino […], ma la visione magica dell’unità della natura e della sua vita inesauribile», (pag. 80, dal testo Filosofi e filosofie nella storia, vol. 2, Paravia 1992).
Mi chiedo se nei due passi sopra riportati si possano intravedere alcune caratteristiche del carattere, dell’agire, del pensare come anche del dipingere di Angel.
A questo punto mi chiedo anche se i due dipinti possano essere analoghi sotto l’aspetto concettuale.
Infine mi chiedo se l’aver scelto il dipinto di Bruno sia stato inconsapevolmente quello di portarmi a casa un po’ di Angel, e anche di aver scoperto una parte di me stesso.5
Dedico queste mie note alla mia amica Bianca Maria o Mariella per alcuni, credendo di farle gradito omaggio se lei fosse ancora tra noi.
Giulio Bambilla
5 Mi è giunto dall’Autore dei quadri il seguente scritto: «Nel 2000 in occasione dei 400 anni dalla morte dipinsi “Il supplizio di Giordano”. La sensualità, il sesso sono la radice della vita. La donna è l’altra metà antagonista e complementare della vita, è dunque la ricerca della completezza e quindi della verità. Il bello e il brutto, il buono e il cattivo, gli opposti, nelle fiamme del martirio lottano, si confondono sono uno, come vita e morte, salute e malattia, inseparabili. Qui nel fuoco Giordano Bruno incontra l’eternità, l’infinito; la sua filosofia qui si fa viva esperienza dell’Uno. L’eterno, l’infinito è il superamento del dualismo. L’espressione del volto è di dolore estremo, è pure un grido d’orgasmo, coglie l’Uno: ‘coincidentia oppositorum’. “Muoio martire e volentieri”, dice prima di salire al patibolo, irridendo i suoi carnefici incravattati. Ama il fuoco, si sente parte del fuoco, è l’elemento che più gli rappresenta il suo ‘eroico furore’, l’amore della verità, che gli mette ali per volare sopra il grigiore dell’Istituzione che opprime giudica e perfino condanna a morte; sono ali per raggiungere la verità e la bellezza, sempre ostili ai calcoli del potere orbato dalla avidità. Quel fuoco fu per lui l’occasione di una catarsi che dal tormento d’una passione libera, profonda e sincera lo sollevò alla visione rasserenante di montagne innevate e di narcisi, simboli della natura infinità ed eterna, di cui lui è entrato a far parte cosciente. Da quel primo ovvio titolo “Il supplizio di Giordano” si può ben passare a quest’altro “Il trionfo di Giordano”.