«Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese», precisa la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Di conseguenza è da intendersi che ogni individuo ha diritto di recarsi in un altro Paese. La Dichiarazione, firmata e ostentata dai governi, sembra però non valere più quando non è più comoda per i propri interessi.
Dall’Africa arrivano in Italia a ondate inarrestabili: 25mila immigranti nel 2008, 63mila nel 2011, 22mila fino al Ferragosto di 2013.
C’è chi colpevolizza questo o quest’altro, quello o quell’altro. Qualcuno Kyenge, perché ministra dell’Integrazione, e la vorrebbe inviare a zappare in Africa, perché nera. Qualcuno Francesco per i suoi rimproveri, incitazioni e messaggi di speranza; tuttavia, siccome è il Papa, nessuno si permette di inviarlo altrove.
C’è chi colpevolizza gli immigrati, chi coloro che li accolgono.
Le colpevolizzazioni però hanno un denominatore comune, cosciente o incosciente che sia: disconoscere che la principale spinta – se non un vero e proprio calcio – per emigrare è la diseguaglianza. Si nasconde anche la responsabilità che in tutto ciò ha il mondo industrializzato, altresì fautore della Dichiarazione. Si nasconde che mentre disperiamo per il trasferimento di risorse primarie a basso prezzo dai Paesi poveri, al contempo non gradiamo il trasferimento della sua gente, salvo che non sia strettamente necessaria come forze di lavoro a basso costo.
«Quello che vediamo sulle coste italiane è conseguenza dell'esodo disperato, perché si mettono insieme due fenomeni: chi fugge dalla guerra e chi fugge dalla povertà», ha detto Emma Bonino. Oltre alla morte, la guerra e la povertà hanno altro in comune: la fame.
Tante volte la povertà è peggiore della guerra per l’infinito numero di vittime e, soprattutto, per la macabra agonia.
La seconda guerra mondiale provocò 7,8 milioni di morti in media l’anno. Ora, ogni anno, 6,9 milioni di bambini muoiono prima di arrivare ai 5 anni e 1,1 milione rischiano (Unicef, Annual Report, 2012). I bambini sono perennemente in guerra mondiale.
Una volta, a Hiroshima e Nagasaki, 200mila persone perirono in un paio di giorni. L’orrore più grande. Ora, ogni anno, muoiono per fame 2,3 milioni di bambini (Unicef, Annual Report, 2011). Oltre 10 volte l’orrore più grande. La fame è l’atomica della povertà.
Le promesse per sconfiggere la fame nel Mondo non bastano. Alle porte del 2015, nei paesi non industrializzati, ancora una persona su sei patisce la fame (Fao, Resilient Livelihoods Disaster Risk Reduction for Food and Nutrition Security, 2011).
Le conseguenze della diseguaglianza, della povertà e della fame, sono agghiaccianti. Mentre in Eritrea l’aspettativa di vita è di 62 anni e il pil pro capite è di 400 euro all’anno, nei Paesi più ricchi d’Europa si vivono 82 anni con 35.000 euro (Undp, Oecd, 2011). E in tante altre parti le cose non stanno molto meglio.
Molti immigrati arrivano cercando l’Italia, altri l’Europa, qualcuno un passaggio per Nord America o Australia; tutti però cercano la stessa cosa: un posto diverso da quello dove muoiono ogni giorno.
Alla superbia indifferente del proibitore s’impone la determinazione intemperante dell’immigrato: «Ma voi davvero pensate che è possibile fermare una marea umana di questo tipo? Pensate davvero che riuscirete a frenarci?» (Mabour, in: Stefano Liberti, A sud di Lampedusa, 2008). Cosa non si fa per vivere 85 volte meglio e 20 anni in più?
I problemi non si risolvono tentando di bloccare gli immigrati se non contrastando la diseguaglianza che li affligge, e anche i nostri insostenibili sprechi.
Quando capiremo che questo mondo, che solitario naviga nel nero mare cosmico, non è di pochi? O sopravviviamo tutti o affondiamo tutti.
Leonardo Antonio Mesa Suero e Linda Pasta